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Lynne Ramsay • Regista

"La responsabilità e la colpa"

di 

- Famiglia, istinto materno, educazione, senso di colpa e radici della violenza. La regista scozzese parla di E ora parliamo di Kevin

Affiancata dalla sua eccezionale attrice principale Tilda Swinton, la cineasta scozzese Lynne Ramsay ha presentato alla stampa internazionale il suo terzo lungometraggio, decisamente riuscito, E ora parliamo di Kevin, presentato in competizione al 64mo Festival di Cannes.

Perché ha voluto realizzare l'adattamento di un romanzo e raccontare una storia di relazioni umane che porta a un dramma, a un massacro?
Lynne Ramsay: Le famiglie sono molto complicate. È questo che mi è piaciuto del romanzo di Lionel Shriver. E anche se non c'è un riferimento nella sceneggiatura, mio fratello e mia madre avevano una relazione molto difficile. Vedevo che anche se mio fratello si comportava molto male verso mia madre, lei cercava di non reagire con violenza. Ho un figlio anche io e mi sono fatta le stesse domande che vengono poste nel film, sulla responsabilità e la colpa.

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Il romanzo parla dei tanti sentimenti ambivalenti di Eva rispetto alla maternità. Perché questo aspetto è trattato meno nel film?
Volevo che fosse il pubblico a interpretare il personaggio. Non volevo che fosse bianco o nero, cioè che fosse o una buona madre o una cattiva madre: esistono varie sfumature di grigio. È una sorta di viaggio con Eva nel quale studiamo le sue emozioni e i suoi sentimenti. Il romanzo è molto denso e molte cose non le ritroviamo nel film, che si ispira unicamente al testo.

Perché ha deciso di non mostrare la carneficina finale?
Innanzitutto non avevamo abbastanza soldi per realizzare una scena del genere. Bisognava mantenere il punto di vista della madre che non ha visto cosa è successo nella scuola, che può solo immaginarlo e lo sogna in incubi senza fine. Non è solo suo figlio ad aver ucciso tutte quelle persone, ma è anche un po' lei, è lei attraverso lui. Bisogna fare attenzione quando si filma, bisogna farlo con intelligenza per rispettare il punto di vista.

La società condanna la madre per le azioni del figlio.
Il film non è uno studio sociale, ma per quanto ne so, quando un figlio si rivela essere molto violento, si riconduce la causa alla madre.

La violenza di Kevin è una metafora della violenza dei giorni nostri?
Kevin vive in una famiglia americana di ceto medio e ha tutto quello che vuole. È una famiglia che non ha particolari problemi e lui è un po' troppo viziato. Lo fanno crescere così finché non si rivolta contro la società. Si porta dietro una violenza che può essere paragonata a quella brutalità del mondo che non vogliamo guardare dritta negli occhi.

Che cosa ci dice dell'estetica e della grande intensità visiva del film?
Vedo i film prima di tutto nella mia testa, in modo molto visivo. È così che lavoro. Vedevo già il mio personaggio principale, Eva, e sceglievo le cose che avrebbero potuto attirarla. Quindi è stata una grande sfida in termini di struttura. È la prima volta che costruisco un film in questo modo: volevo raccontare la storia in modo molto personale. In ogni caso non volevo mostrare qualcosa di esageratamente violento. Vediamo solo quello che succede prima e dopo.

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