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Mia Hansen-Löve • Regista

"La vulnerabilità di una vita umana"

di 

- Dai "Cahiers du Cinéma" ad un primo lungometraggio molto lodato al Festival di Cannes: la rapida traiettoria di una cineasta franco-danese di 27 anni che esplora con dolcezza le zone d'ombra dell'uomo

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e della narrazione, che racconta una dozzina d’anni?

Mia Hansen-Löve: La scena originale era quella dei rincontri gioiosi di un padre ed una figlia al Jardin des Plantes a Parigi. Ho scritto la sceneggiatura velocemente con l’idea di tornare indietro, di capire e raccontare la storia che porta a questi incontri con parti molto distinte e vaste ellissi. Quello che mi colpisce anche come spettatrice, è che un film non può rendere conto di tutto, ma solo di alcuni momenti della vita. Raccontare più di dieci anni in un’ora e mezza è illusorio, ma esprime anche la vulnerabilità del destino, di una vita umana. Non volevo raccontare in maniera fluida e progressiva, ma piuttosto in blocchi senza centro, restituire il mistero che circonda certi momenti che si lasciano nell’oscurità e che fanno parte, secondo me, della crudeltà della vita.

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La droga gioca un ruolo essenziale nel deterioramento di una coppia...
Non avevo intenzione di fare un film su questo tema, ma sarebbe stato impossibile trattare il personaggio che avevo in testa senza parlarne. Ho cercato quindi di avvicinarlo nella maniera più frontale possibile. Il personaggio di Victor ha un malessere profondo e la droga ne è l’espressione. Il suo comportamento distruttivo fa andare avanti il film. Ci sono molte cose non dette, in particolare nelle prime due parti, come ho osservato intorno a me nelle coppie nelle quali uno dei due fa uso di droga. C’è una grande capacità di rimozione intorno all’argomento. Annette è sempre più lucida, sa sin dall’inizio che Victor fa uso di droghe, ma c’è sempre l’idea che passerà, e che lui non sia davvero tossicodipendente. In fondo, Victor cerca la grazia ma non la trova. È ossessionato dal desiderio di scrivere, prova una vera fobia nei confronti della vita materiale, vive in una nostalgia dell’infanzia e nel rifiuto di entrare nella vita adulta. Far iniziare il film a Vienna, in un paese che non è il suo, è il modo di affermare all’improvviso la sua difficoltà ad essere ancorato al mondo.

Come ha scelto i due interpreti principali, il francese Paul Blain e l’austriaca Marie-Christine Friedrich ?
Ho incontrato Paul ad una retrospettiva dedicata ai film del padre (Gérard Blain). Mi ha colpito la sua presenza e la sensazione di verità che dava e gli ho proposto il ruolo immediatamente. Marie-Christine mi è stata presentata dalla direttrice della fotografia Caroline Champetier e l’ho trovata molto carismatica, seducente, di grande maturità. La sua esperienza, soprattutto teatrale, creava un equilibrio con Paul che è un attore istintivo e con il resto del cast, composto da molti esordienti, ragazzi e non professionisti.

Quali sono state le sue scelte registiche?
Volevo evitare le regole fisse della messa in scena, un difetto di molte opere prime in cerca di pseudo-radicalismo. Per quanto riguarda il montaggio, cercavo concisione e semplicità. Ho scelto una prima ed una terza parte molto luminose, mentre la seconda è più buia. E ho privilegiato un’immagine dolce e piuttosto calda attraverso i costumi, le scenografie, il modo di usare lo spazio.

Quali sono le sue principali influenze cinematografiche?
L’elenco è lungo, ma i registi francesi sono quelli che amo di più: Rohmer, Truffaut, Doillon, Garrel, Desplechin... Ma adoro anche Nanni Moretti, Cronenberg, Michael Mann, Tarantino, Scorsese, Larry Clark... Quello che mi piace del cinema, è l’uomo.

Ha già un nuovo progetto in cantiere?
Ho appena completato una sceneggiatura intitolata Le père de mes enfants e spero di girarla l’estate prossima.

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