Produrre in Africa
- La questione dello sviluppo delle industrie cinematografiche africane è stata di centrale importanza al Batik Film Festival del 2007. Durante i dibattiti, pur consapevoli degli aspetti benefici dei contributi europei, i partecipanti hanno sottolineato gli effetti negativi della dipendenza finanziaria dai Paesi europei delle industrie cinematografiche africane.
Tavola rotonda sulle cinematografie africane al bATìk Film Festival di Perugia: problemi economici e sociali, l’imposizione di un’estetica europea, la libertà del digitale.
“La dipendenza finanziaria dall’Europa”
Il bATìk film festival di Perugia quest’anno ha organizzato, oltre a
un’ampia retrospettiva, anche una tavola rotonda sul cinema africano, anzi
sarebbe meglio dire sulle cinematografie africane. L’uso del plurale è
d’obbligo per rendere giustizia a un continente ricco di culture e
linguaggi essenzialmente diversi. Erano presenti alla conferenza: Enzo
Forini, Mohamed Challouf e Roberto Silvestri, ossia tre dei personaggi che
proprio a Perugia idearono venti anni fa uno dei primi festival dedicati
alle cinematografie africane in Europa. Insieme a loro sono intervenuti: il
critico Giuseppe Gariazzo (autore di due libri sul cinema e le poetiche
africane, editi da LINDAU) e i registi Ferid Boughedir, Balufu Bakuapa
Kanyinda, Mahamoud Ben Mahamoud, Abdheramane Sissako e Aryan Kaganof.
Il punto più delicato della discussione ha riguardato i problemi economici
e sociali del continente africano. Un grave ostacolo per lo sviluppo del
cinema che porta con sé l’inevitabile dipendenza dalla produzioni europee,
soprattutto da quelle francesi, olandesi e belghe.
Un’estetica condizionata
I registi hanno riconosciuto alla cinefilia europea il merito di promuovere i loro film nei
festival e, in ogni caso, di consentire l’esistenza di un cinema che
altrimenti non avrebbe sufficienti finanze per essere realizzato; tuttavia,
l’altra faccia della medaglia è l’imposizione, consapevole o meno, di
un’estetica che sia affine ai gusti europei piuttosto che a quelli
africani. I film di Mahamoud Ben Mahamoud, ad esempio, sono prodotti dai fratelli
Dardenne. Il regista tunisino si è detto soddisfatto del lavoro che sta
conducendo con loro. Però, parlando a proposito
di Les siestes grenadines, il suo ultimo film che affronta il tema
dell’intolleranza razziale dei tunisini nei confronti dei sub-sahariani, ha
posto l’accento sulle critiche severe ricevute sia in Patria, per ovvi
motivi, che in Europa. Pareri negativi perché in modo del tutto imprevisto
ha denunciato una situazione poco accattivante per la critica. “Io volevo
rappresentare la dura realtà del Nord Africa, uscendo dal luogo comune
europeo per cui il razzismo è solo quello che si manifesta dal nord del
mondo al sud. Si vorrebbe sempre rappresentata l’idea di un’Africa magica e
misteriosa che, tuttavia, è ben lontana dalla realtà dei fatti. Purtroppo
questo è un punto dolente della nostra società, sul quale anche gli europei
dovrebbero riflettere meglio. Può allora capitare che per soddisfare il
pubblico francese o italiano un regista sia costretto a non parlare di ciò
che accade realmente”.
Per parte sua, il critico e cineasta Ferid Boughedir ha sottolineato che
“fino a quando gli europei sosterranno economicamente le cinematografie
africane con il solo fine di presentare le opere nei festival e nelle
rassegne monotematiche, difficilmente si uscirà fuori da una produzione di
nicchia, per giunta esteticamente condizionata. La Francia è una grande
nazione e non c’è dubbio che la sua eccezionale passione per il cinema sia
la migliore testimonianza di un innato senso per la democrazia. Essere
cinefili significa rispettare e apprezzare la pluralità delle culture.
Resta il fatto che c’è l’urgenza di risolvere un altro grave problema
derivato dalla dipendenza dai soldi europei. In molti Paesi africani non
esiste un mercato interno. Così si verifica lo strano paradosso per cui i
film africani sono visti all’estero ma non in patria. E’ come se un
africano guardandosi allo specchio vedesse la propria figura trasformata in
quella di un europeo”.
La libertà si chiama digitale
Le soluzioni di questo problema sono state varie e diverse. Sul versante produttivo, è stata
indicata da Balufu Bakuapa Kanyinda che con Afro@digital ha in
qualche modo esposto una sorta di manifesto d’indipendenza del cinema
africano: “per poter realizzare film indipendenti bisogna intraprendere
nuovi percorsi. Il digitale è la terza rivoluzione del cinema, è la nuova
frontiera per potersi esprimere liberamente senza essere costretti a fare
compromessi”.
Più conciliante è stato Abderrahmane Sissako, autore di La vie sur la
Terre, un mediometraggio commissionato dalla Francia che doveva
rappresentare cinematograficamente il punto di vista di una popolazione
africana al momento di passare nel terzo millennio. Un bel film che,
evidentemente, non risente di particolari condizionamenti: “penso che un
regista - ha rivendicato Sissako - debba essere considerato sempre in senso
universale. Il mio punto di riferimento è Tarkovskij, un autore che in ogni
film ha saputo aggiungere un elemento in più alla sua poetica. Non credo
sia giusto parlare di un cinema che si corrompe a causa dei finanziamenti
europei. Il fatto che la mia estetica sia mutata dipende da una motivazione
personale. Lo stesso può valere per un altro grande regista del Mali come
Souleymane Cissé che, certamente, non ha confezionato i suoi film in
funzione del festival di Cannes. Cominciamo a considerarci come autori,
forse le cose miglioreranno”.
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