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Denis Dercourt • Regista

Delizie minimaliste di manipolazione

di 

- Incontro con un cineasta musicista, che si impossessa con abilità del film di genere e del thriller

Personalità fuori dai canoni nel cinema francese, grazie alla sua doppia vita di regista e insegnante al Conservatorio, Denis Dercourt racconta a Cineuropa le ragioni che l’hanno spinto a lanciarsi, per la prima volta, nell’avventura di una produzione su grande scala per La tourneuse de pages [+leggi anche:
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. Una sfida vinta brillantemente da thriller elusivo, nel quale il regista non perde mai il filo della sua originalità di artigiano a margine del sistema.

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Cineuropa: Perché la scelta del tema della vendetta come filo conduttore de La tourneuse de pages ?
Volevo fare un film fisico, con due donne, e la vendetta è un tema molto cinematografico. Ho scritto la sceneggiatura quando mi trovavo in Giappone, e avevo in testa film come La rivincita di Juki-No-Jo di Kon Ichikawa (1963) e tutta l’estetica giapponese, a volte tenera e violenta. Ho ambientato la sceneggiatura in un mondo musicale perché lo conosco bene, ma non era la cosa più importante. È l’idea di vendetta che m’interessava.

Come sua prima incursione nell’universo della suspense, ha curato particolarmente il rigoroso progredire della sceneggiatura?
Era obbligatorio. All’inizio la storia di una vendetta metodica imponeva un approccio rigoroso, perché legato al suo tema. E nella musica, quando si suona, non si lascia nulla al caso. La sceneggiatura riflette questo, con pochi fronzoli. La scrittura era abbastanza divertente, perché chi gira intorno alla manipolazione è divertente da raccontare. Mélanie (Deborah François) è al primo o al secondo livello, si tratta di caso o premeditazione? È per questo che ho girato molto intorno ai diversi punti di vista, che abbiamo dovuto raccordare al montaggio, passando costantemente dall’oggettiva alla soggettiva. È la regola di un genere molto codificato, in cui la scelta del punto di vista è fondamentale. Leggendo le interviste a Hitchcock, si percepisce quanto fosse ossessionato dalla questione dell’oggettiva e della soggettiva. È il mio primo thriller, e ho percepito anch’io che le regole di scrittura sono assai simili a quelle della musica, e che la suspense consiste nel tendere, nel risolvere poi, e a ricominciare d capo. E tutto questo inserito in una trama lineare, perché volevo che il film fosse semplice. È stato necessario stabilire dall’inizio che Mélanie avesse una potenziale pericolosità nella scena del pianoforte schiacciato sulle dita. In seguito, dopo essere passata all’azione con l’archetto del violoncello, lo spettatore resta sempre sul chi vive. È minimalista, ma ho cercato di mantenere la tensione e la suspense introducendo dei micro-eventi, insieme alla colonna sonora che gioca un ruolo molto importante.

Come ha scelto la coppia di attrici protagoniste?
Catherine Frot è un’attrice che ha recitato molto lavorando sull’autocontrollo, e nel mio film interpreta un personaggio che perde il controllo. E qui diventa davvero sconcertante. In più, ha molto rispetto per la musica, ed è stata preparata per arrivare a interpretare realmente tutto quello che è sullo schermo (anche se non è la colonna sonora finale). Tengo enormemente a questo aspetto un po’ documentario nel filmare la musica. Quanto a Deborah François, non la conoscevo affatto, il mio produttore me l’ha segnalata. Ho visto L’enfant- Una storia d’amore [+leggi anche:
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, abbiamo fatto una prova e mi ha convinto quasi subito. È un’attrice incredibile. Abbiamo lavorato molto sul suo modo di sorridere, un enigma, sull’opacità del personaggio. Infine, per quanto riguarda Pascal Greggory, anche se il suo ruolo è un po’ secondario, avevamo bisogno di un attore che avesse una presenza forte, il peso del marito assente.

Qual è stata la sua scelta dal punto di vista visivo?
Desideravo avere sia Catherine che Deborah insieme nel campo, perché avrebbe creato una forte tensione fra loro. Il mio modo di filmare è una sorta di attrazione, una messa in scena che volevo fredda, un po’ distanziata. La fluidità dei movimenti della telecamera, invece, ricorda il film di genere. Avevo sempre dei movimenti di avvicinamento serpeggianti, ma dipende molto dal soggetto. Non c’è violenza. La mia idea è che lo spettatore, uscendo, abbia una sorta di musichetta che continui a girargli in testa.

Perché ha accettato, per la prima volta, una produzione classica?
All’inizio volevo fare il film da solo, girare in maniera leggera, con una troupe ridotta, con una telecamera dell’Armata Rossa che avevo comprato e fatto passare in Super 16. Ho mandato qualche pagina [della sceneggiatura] che avevo già girato a Michel Saint-Jean nell’ottica di una distribuzione, e perché confidavo nel suo parere. E allora mi ha proposto di scrivere una sceneggiatura normale e di produrre il film. Non l’avevo mai fatto. Ho girato il film in maniera molto più pesante di quanto non fossi abituato, ma è stata una bella esperienza ed era necessario, perché bisognava avere un’immagine bella con dei personaggi di classe, ragazze molto belle… tutto quello che è colore, è pensato per dare allo spettatore proprio questo effetto, ma con discrezione, giocando con la monocromia senza però rischiare la monotonia. E tutto questo richiede tempo e soldi.

Lei gira spesso storie legate alla musica, che è anche la sua professione al Conservatorio. Il suo cinema è dunque indissociabile da questo tema?
Mi piace evocare quello che conosco, e credo si possa essere molto più universali parlando del proprio villaggio, al contrario di quanto si possa pensare. E poi, filmo più il lavoro della musica che la musica stessa. Lo trovo affascinante, con queste lunghe ore di esercizi, e questo meraviglioso quadro uditivo. Ci sono dei vincoli, della bellezza, concetti che sono fuori moda, a volte, ma sempre presenti. Sul piano personale, dirigo giovani musicisti professionisti, e il tempo che passo con loro è come un allenamento in confronto al mio lavoro con gli attori. Quando si è musicisti, si è anche sensibili al rapporto con lo spettatore, alla gestione del tempo.

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