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BERLINALE 2023 Forum

Recensione: Anqa

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- BERLINALE 2023: Lo sguardo di Helin Çelik su abusi e traumi è emozionante, ma visivamente spoglio

Recensione: Anqa

"La gente dice che sei i resti di una donna", afferma una voce fuori dallo schermo. La donna raffigurata, con rughe profonde che intuiamo piene di dolore, assume un'espressione severa. "Io esisto", dice, confutando quel sentimento. Come potrebbe essere dei resti, se esiste ancora? Lei, come persona, non è solo il suo dolore e il suo trauma. Al centro del documentario Anqa [+leggi anche:
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di Helin Çelik, presentato in anteprima alla 73ma Berlinale, nella sezione Forum, ci sono i postumi di abusi e stupri. È un ritratto di tre sopravvissute in Giordania, che hanno subito molestie, prigione e violazione di domicilio.

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Non vengono forniti nomi e non vengono indicati luoghi esatti. Si intuisce che questa non è solo una scelta stilistica, ma serve per garantire la sicurezza delle donne, che sono ancora emarginate nella loro società. “La gente dice che sono pazza; non lo sono”, afferma una di loro. "Sono pazza per essermi difesa, pazza per proteggere le mie ragazze?". Tutte e tre sono sfuggite ai loro aguzzini e vivono isolate nei loro appartamenti e nelle loro case. Fino ad avere le tende sempre tirate, con un'oscurità perpetua che permea le stanze scarsamente arredate. Il sole è motivo di terrore per una di loro. Un'altra non riesce a dormire la notte, poiché rivive i traumi del passato.

La luce del sole che Çelik cattura mentre penetra dalle tende e dalle finestre sembra quasi un intruso, una promessa o una minaccia dal mondo esterno. In silenzio, disegna forme misteriose sulla moquette del pavimento o si riflette nello specchio. Quando le donne aprono le loro porte di casa o entrano nei loro cortili, inizia a suonare una musica minacciosa e un tremolio inquieto nella telecamera mostra l'ansia che ribolle. In confronto, c'è pace e tranquillità all’interno della casa, poiché nessun suono esterno rompe l'isolamento. Çelik può focalizzare il suo sguardo sui dettagli dei volti delle donne, i loro profili e le loro mani. Non c'è quasi mai una ripresa frontale di nessuna delle tre, e se c'è, è per lo più filmata da lontano.

Ma Çelik non riesce sempre a trovare l'equilibrio tra il suo materiale tragico e la sua messa in scena. La più grande delle tre, che è anche madre di quattro bambini che vivono con lei, sembra lottare di più con la sua vita. Ha delle belle figlie, commenta, ma “è meglio che muoiano”. Ripetutamente, racconta il suo desiderio di porre fine alla vita delle sue figlie. Non per punirle, ma per salvarle dagli orrori del mondo. Anche se non lo fa, è un pensiero che non riesce a scrollarsi di dosso. Un'altra donna continua a guardare un film, la sua unica finestra sul mondo esterno, in cui uno dei cardini della trama sembra essere l'abuso sessuale. È come se stesse guardando la sua stessa storia, a ripetizione.

Questa frustrazione, questo lato spezzato delle donne, è affascinante da guardare. Allo stesso tempo, Anqa diventa presto faticoso a causa del suo sguardo limitato sulle loro vite e dei ridondanti espedienti cinematografici che utilizza per mostrare l'isolamento. Il rituale costante di preparare il tè, guardare la TV o interagire con i bambini potrebbe essere l'unica routine quotidiana di queste donne. Ma dopo un po' perde efficacia. C'è da chiedersi se questa storia non avrebbe funzionato meglio come cortometraggio.

Anqa è una produzione austro-spagnola guidata da Kepler Mission Films e Helin Çelik, e venduta a livello internazionale da sixpackfilm.

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(Tradotto dall'inglese)

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