Recensione: Kenny Dalglish
- Asif Kapadia presenta un nuovo ritratto di un’icona dello sport intrecciandolo con una stagione drammatica per il calcio internazionale, e per quello inglese in particolare

“Questo film contiene immagini che per alcuni spettatori potrebbero essere angoscianti”, ci avverte un cartello all’inizio di Kenny Dalglish, il nuovo documentario di Asif Kapadia, presentato in prima mondiale alla 20ma Festa del cinema di Roma nella sezione Special Screenings. Ma cosa ci possa essere di angosciante nella straordinaria parabola di un calciatore diventato un’icona – non tra i più conosciuti a livello globale, eppure protagonista di una stagione magnifica del Liverpool FC, a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80 – lo si capisce non prima di metà film, quando gli stadi dove Kenny Dalglish gioca con la sua squadra cominciano a diventare luoghi di morte.
Strage dell’Heysel (1985), 39 morti. Strage di Hillsborough (1989), 97 morti. In entrambe le occasioni giocava il Liverpool. Nel primo caso contro la Juventus (32 delle vittime furono tifosi italiani) e la colpa fu senza dubbio della furia degli hooligans; nel secondo caso, contro il Nottingham Forest, furono i sostenitori del Liverpool ad essere ingiustamente additati come i responsabili della strage. All’epoca di quest’ultima, Dalglish era l’allenatore della squadra e quella che è passata alla storia come la più grande tragedia dello sport inglese lo ha segnato profondamente. Un evento che ha anche cambiato il tifo calcistico per sempre: da allora, per evitare i sovraffollamenti, gli stadi non avranno più i posti in piedi.
“Kenny Dalglish ha fatto più di chiunque altro per la gente di Liverpool. Eppure è scozzese”. Queste parole, pronunciate niente di meno che da Paul McCartney (entrambi Sir), sintetizzano la figura di questo calciatore proveniente dalla working class, cresciuto al Celtic Glasgow e poi passato al Liverpool nel momento in cui il club perdeva il suo idolo, Kevin Keegan, di cui diventerà l’erede naturale. Il materiale d’archivio utilizzato nel film è abbondante e inedito, la voce narrante è quella di Dalglish stesso, le immagini delle entusiasmanti azioni in campo (“sembrava di veder giocare il Brasile”, dice qualcuno) si combinano con quelle della vita privata, ma anche con quelle dei tifosi, della gente comune che in epoca thatcheriana era oppressa dalla disoccupazione dilagante e trovava sollievo e riscatto nel football.
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scheda film]), il regista inglese di origine indiana si prende il suo tempo per celebrare il talento di Dalglish nelle varie fasi della sua carriera prima di concentrarsi sull’uomo e il suo valore come persona. Così quello che all’inizio può sembrare un semplice omaggio a un idolo della propria giovinezza (Kapadia aveva il poster di Kenny Dalglish attaccato in camera), godibile appieno soprattutto dal pubblico britannico, si evolve in un ritratto più universale del lato sano del calcio e del rapporto indissolubile dello sportivo con la comunità che lo supporta (e alla quale non manca di restituire il favore, non voltandole mai le spalle). L’abile montaggio del film, che come tutti i lavori di Kapadia immerge lo spettatore in un flusso continuo di filmati di repertorio e interviste audio, è firmato dall’italiano Matteo Bini.
Kenny Dalglish è prodotto dalle britanniche Tap23, Lafcadia Productions e Redrum Films. Le vendite nel mondo sono a cura di Altitude Film Sales.
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