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Mathieu Amalric • Regista

“Creare finzione, disordine, disobbedienza”

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- In occasione della conferenza stampa al Festival di Cannes, il regista francese ha risposto alle domande dei giornalisti internazionali

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intervista: Mathieu Amalric
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Mathieu Amalric: Tutto è cominciato con un libro di Colette, I retroscena del music-hall. Lei faceva cose un po' scandalose per l'epoca e mi sono innamorato del suo modo di raccontare la sua vita in tournée. Cercavo un'idea che mi permettesse di mostrare lo spirito di questa donna e ho scoperto Kitty Hartl, che è il vero Joachim del mio film e che ha inventato la troupe del New Burlesque. Queste ragazze sono contagiose, mi hanno adottato come nel film.

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Quale tema l'attirava di più: un produttore alla deriva che forma una famiglia d'adozione, un film ambulante nella profonda Francia o un'ode alla femminilità?
Stimoli incessanti sono venuti dal caos di diversi elementi: un articolo che raccontava molto bene l'arrivo del New Burlesque allo Zèbre (una sala parigina, ndr), il suicidio del produttore Humbert Balsan, la mia attrazione per il coraggio dei produttori, il gusto e ciò che vi è di spettacolare nei nomadi di passaggio in una città di sedentari, il fatto che ora ci siano persone tutte uguali fra loro (l'uniformità del pensiero, dei corpi e dello spirito). Sentivo che questo avrebbe creato finzione, disordine, disobbedienza, politica, senza dover trasmettere un messaggio. Nel film, le ragazze si fanno carico di tutto questo con la bellezza dei loro numeri, che hanno totalmente inventato: i costumi, il trucco, le coreografie. Questo le racconta, ognuna in modo differente. E si fantastica di due continenti, con un uomo che ha sicuramente visto troppi film americani, che è stato negli Stati Uniti e che gioca con le loro fantasie della Francia e di Parigi.

Ha scritto il film, lo ha diretto, lo ha interpretato. E' un ritratto personale?
All'inizio, non dovevo recitarvi. Nello scrivere, siamo partiti da produttori come Humbert Balsan, Jean-Pierre Rassam, Paolo Branco. Ma sembrava che tutti sapessero che vi avrei recitato, tranne me. Essere insieme nello stesso contesto, andava bene, perché eravamo complici nella finzione. Potevo immediatamente condividere a parole, comunicare i miei dubbi sulla scena, sull'azione. Ero ossessionato dall'azione, dal fatto che non fosse un documentario, che le ragazze fossero dei personaggi, ciascuno con il proprio passato. E loro hanno avuto una capacità di reazione magnifica, come sul treno, ad esempio. Nel film, ci sono solo 17 minuti di show, il resto del tempo sono attrici

Come ha mantenuto l'equilibrio tra i momenti tristi, solitari, e i passaggi gioiosi e collettivi?
Le riprese sono state divise in due parti: cinque settimane in provincia con la troupe e un'altra settimana e mezza molto triste, perché le ragazze non c'erano più e abbiamo girato cose molto violente, con i bambini all'ospedale, con Damien Odoul. Ma è anche un lavoro di sceneggiatura. Affinché il ritorno di Joachim nel gruppo fosse più forte, sentivo che c'era bisogno che avesse attraversato un momento d'inferno.

Si può dire che All That Jazz abbia influenzato Tournée?
E' proprio così. Mi chiedevo quale attore francese potesse interpretare Joachim. Ho mostrato alle mie produttrici Roy Scheider nella prima scena di All That Jazz, il casting in cui è odioso e irresistibile allo stesso tempo. In seguito, per il piacere di interpretare questo personaggio, mi sono detto che Joachim si sentiva un po' come Ben Gazzara e ho deciso di lavorare sulla mia timidezza, sulla mia ammirazione per il modo in cui le ragazze riescono a portare in ogni luogo desiderio e festa, e sulle falle del mio personaggio, da cui ha origine la sua aggressività.

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