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Christophe Wagner • Regista

"Manipolare, ma a fin di bene"

di 

- Dopo il documentario Luxembourg, USA, il regista e sceneggiatore Christophe Wagner si è lanciato nel suo primo lungometraggio di finzione con il film noir Blind Spot.

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Christophe Wagner: Il progetto è nato dalla voglia di fare un film di genere, nella fattispecie un thriller. Soprattutto perché il genere thriller, o il film di genere in generale, non era mai stato trattato nel cinema lussemburghese. Il thriller mi ha permesso di mettere insieme immagini e tematiche che avevo sviluppato in alcuni miei documentari, come la tossicodipendenza e la prostituzione, e che rientravano nell’atmosfera cupa del film.

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Perché un film di genere in lussemburghese?
Prima di tutto, è la mia lingua madre e io stesso sono appassionato di film di genere, soprattutto quelli degli anni ’70, di stampo più politico. Poi, mi piaceva l’idea di fare il primo thriller lussemburghese. E non ho mai creduto che girare un film in lussemburghese avrebbe nuociuto all’esportazione del film.

Che ruolo ha avuto la lingua del progetto durante lo sviluppo e la scrittura?
A essere onesti, le prime versioni della sceneggiatura erano in francese e all’inizio speravamo di fare una coproduzione con la Francia. D’altronde, abbiamo partecipato a un prestigioso premio della sceneggiatura in Francia, il Premio Sopadin, e con sorpresa generale, siamo arrivati in finale tra più di 250 progetti. Speravamo, con una coproduzione francese, di avere uno o più nomi noti nel cast e di avere un budget più alto. Ma in realtà non c’era un vero interesse a coprodurre un film lussemburghese. Siamo quindi tornati all’idea originale e non ho rimpianti.

Non essendoci molti attori lussemburghesi, i ruoli sono stati scritti su misura?
Solo i due ruoli principali sono stati scritti pensando agli attori Jules Werner e André Jung, ma non sono stati scritti su misura. Per gli altri ruoli, abbiamo fatto un casting. E’ un problema reale del cinema lussemburghese: il vivaio tutto sommato ristretto di attori lussemburghesi, cosa normale vista la dimensione del paese. Una delle grandi sfide per me era la qualità e la credibilità dell’interpretazione.

Viene mostrato un lato piuttosto oscuro del Granducato. E’ per rispettare le convenzioni del genere o semplicemente è una realtà del paese che non siamo soliti vedere sullo schermo?
Da una parte, ho sempre pensato che bisognasse sfruttare il carattere noir della storia sino alla fine. Da lì, un’ambientazione cupa e vischiosa tipica del genere. Dall’altra, avevo proprio voglia di raccontare i lati più oscuri del mio paese. Questo deriva dalla mia esperienza pluriennale nel documentario, in cui affrontavo principalmente temi sociali di cui nessuno voleva parlare. E’ un percorso politico: voler raccontare la società in cui si vive e mostrare i suoi lati deboli.

Voleva fare un film principalmente per il pubblico lussemburghese?
Naturalmente penso al pubblico quando faccio un film, ma più a livello di narrazione. In un thriller, bisogna evitare di dare troppe informazioni troppo velocemente o di trattenerle troppo a lungo. Bisogna giocare con le emozioni dello spettatore, senza frustrarlo troppo. Anticipare le sue reazioni, portarlo su un certo terreno… manipolarlo, ma a fin di bene. In generale, volevamo fare un film per il pubblico lussemburghese, ma l’accoglienza nei festival ci ha mostrato che poteva benissimo essere apprezzato e capito all’estero. L’interesse verso il film, soprattutto negli Stati Uniti, ci conferma che l’importante non è la lingua, ma la qualità.

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