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Jean-Philippe Martin • Regista

"Volevo mettere a confronto un percorso intimo e un percorso geografico"

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- Abbiamo incontrato il regista Jean-Philippe Martin, il cui primo lungometraggio Sonar esce nelle sale belghe

Jean-Philippe Martin • Regista

Francese originario del Sud-Ovest, Jean-Philippe Martin sbarca a Bruxelles per studiare regia all’INRACI. Dopo aver realizzato diversi cortometraggi, tra cui BBbrrOOmm (premio Kieslowski della sceneggiatura nel 2002), seguito nel 2006 da Lapin aux Cèpes, dirige successivamente vari documentari, tra cui nel 2007 Manou Gallo, Femme de Rythme (52’). Sonar [+leggi anche:
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intervista: Jean-Philippe Martin
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, suo primo lungometraggio, è incentrato su un ingegnere del suono che realizza il ritratto sonoro della donna che cerca di capire. Il film esce in Belgio, distribuito dalla sua società di produzione Hélicotronc, oggi, 7 giugno.

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Cineuropa: La sfida del film è "mostrare" il suono con l’immagine. Come funziona in scrittura?
Jean-Philippe Martin:
In alcune fasi della scrittura era quasi troppo scritto, ed era difficile da far capire al lettore. Passare dal suono all’immagine va bene, ma quando si tratta di scrivere… E’ un film sul suono, ma soprattutto un film sulla parola, il contatto, il rapporto con l’altro. Questo personaggio singolare di ingegnere del suono era un traghettatore. Aprire il suo microfono, tendere il suo microfono significava per lui essere in ascolto, una rappresentazione fisica del processo in sostanza.

Come ha scelto di trattare il suono attraverso l’immagine?
Non volevo per forza creare un legame causale tra immagine e suono. C’erano diversi livelli di riflessione rispetto al suono: il ritratto sonoro di Amina in quanto tale, il modo in cui il suono si muove rispetto all’immagine, il modo in cui Thomas sente il suono. Il montaggio ha avuto un ruolo di primo piano, mentre nel mio cortometraggio Lapin aux cèpes ero frustrato in quella fase, mi sembrava di riempire. Ho voluto aprire questo campo, esplorare questo universo.

Amina aspira a reinventare la sua storia, tornando alle sue origini.
Volevo parlare del diritto a non essere determinati da ciò che rappresentiamo agli occhi degli altri, per le nostre origini, il nostro ambiente. Amina gioca con i codici della ragazza araba che le vengono rimandati costantemente. Se ne serve a volte per farsi passare per una clandestina, può calcare la mano per far piangere, perché è l’identità che le hanno sempre rimandato, e con cui si è dovuta confrontare. Alla fine, ci si confronta tutti con gli stessi problemi, si costruiscono barriere per paura, per pudore a volte. Spesso si fugge in avanti. Abbiamo tutti la stessa fragilità, che si tratti di Amina, Thomas o Wyatt, tutti hanno delle crepe che li rendono profondamente umani e che li uniscono.

Partendo dalla ricerca delle origini di un’altra persona, è se stesso che Thomas trova alla fine…
L’altro è la soluzione del proprio benessere. Mostrarsi generosi nel proprio rapporto con gli altri e con il mondo non può che farci bene, portarci alla serenità. E’ un discorso un po’ umanista, ma che condivido pienamente. Sono convinto di questo, che la soluzione ad ogni malessere sia l’altro. In un’epoca in cui si comunica a vanvera, a volte si perde di vista la comunicazione diretta.

Sonar è anche una buffa storia d’amore?
Gioco abbastanza con i codici, la prima parte è costruita quasi come una commedia romantica con sfumature di film noir. Non volevo una risoluzione troppo felice per questa storia, anche se ne abbiamo girata una! Questi personaggi non sono fondamentalmente innamorati, sono giusto incappati l’uno nell’altra e si sono fatti del bene nella loro collisione. Si innamoreranno forse più tardi, ma sono partiti da cattive basi.

Anche il viaggio ha un ruolo di primo piano?
Volevo un racconto di formazione, l’idea di mettere a confronto un percorso intimo e un percorso geografico, avere questi due territori che si rispondono. Nella mia vita il viaggio è essenziale, mi ha costituito e formato. Chiaramente è una cosa che doveva ritrovarsi nel mio primo film. Per me è sempre il miglior modo di fare il punto su me stesso, e talvolta di reinventarmi.

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(Tradotto dal francese)

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