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Svizzera / Francia / Germania

Georges Gachot • Regista di Where Are You, João Gilberto?

“Se mi dicono che qualcosa è impossibile, io ci provo lo stesso”

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- Il regista franco-svizzero Georges Gachot ci parla del suo singolare documentario, Where Are You, João Gilberto?, in concorso nella sezione LP Doc al Seeyousound di Torino

Georges Gachot • Regista di Where Are You, João Gilberto?

Dopo la première a Visions du Réel e il passaggio al Locarno Film Festival, e prima di approdare questo mese al FAME - Film & Music Experience di Parigi e a ZagrebDox, Where Are You, João Gilberto? [+leggi anche:
trailer
intervista: Georges Gachot
scheda film
]
(vendite internazionali: Doc&Film International) ha fatto tappa al Seeyousound, il festival dedicato ai film a tema musicale che si è da poco concluso con grande successo a Torino. Abbiamo parlato con il regista Georges Gachot di questo suo documentario, una coproduzione svizzero-franco-tedesca a metà tra noir investigativo e road movie, che si mette sulle tracce del leggendario creatore della bossa nova, scomparso dalle scene da molti anni, e ormai invisibile anche ai suoi amici più stretti.

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Cineuropa: Il suo documentario prende le mosse dal libro di un giovane scrittore tedesco, Marc Fischer, che si era dato come missione quella di incontrare João Gilberto, senza riuscirci. Perché ha deciso di raccogliere questa sfida?
Georges Gachot
: Avevo già fatto tre film sul Brasile, in cui mi sono interessato a due cantanti molto famose e poi al samba. Mi sono detto: ok, col Brasile ho finito, ma c’era ancora João Gilberto che avrei voluto incontrare almeno una volta, perché è la chiave di tutto. Io amo la musica classica, e per me lui è il più classico dei musicisti, è paragonabile a pianisti come Glenn Gould, con cui condivide anche il fatto di essersi chiuso in se stesso e non aver fatto più concerti. Ho tentato quindi di incontrare Miúcha (la moglie di Gilberto, ndr), ma senza risultato. Avevo un po’ abbandonato l’idea. Poi mi sono imbattuto nel libro di questo tedesco che mi ha dato lo spunto per fare un ritratto su Gilberto senza veramente incontrarlo, basato su ciò che non vediamo e che lo spettatore può immaginare.

Il film è strutturato come una doppia inchiesta: lei segue le tracce di Fischer che era a sua volta sulle tracce di Joao Gilberto.
Per alcuni risulta un po’ complicato. A un certo punto abbiamo deciso che io entrassi fisicamente nel film, altrimenti avremmo ascoltato solo ciò che Marc Fischer aveva scritto e le persone che lui aveva incontrato, e rischiava di diventare molto didattico. Per me non è stato difficile perché c’è la mia vita lì, a Rio sono come a casa mia. Ripercorro i passi di Fischer, sono nella sua ombra, ma nulla è inventato, io sono così. All’inizio si vede che leggo un libro, poi a un certo punto la figura di Fischer fa il suo ingresso, le sue parole vengono lette da Max Simonischek, un attore tedesco molto bravo. Identificarmi con Fischer mi ha anche spaventato, mi ha dato angoscia entrare nella pelle di qualcuno che si è suicidato (lo scrittore si è tolto la vita una settimana prima dell’uscita del suo libro, “Hobalala”, ndr). Miúcha e João Donato mi dicevano di fare attenzione ad avvicinarmi a Gilberto, che potevo fare la fine di Fischer. Tutte le persone che compaiono nel film hanno di fatto conosciuto Marc. E’ una storia su Marc Fischer in cui ho perso un po’ di me stesso, ma questo ha anche amplificato la mia personalità: è una confusione voluta, necessaria. 

Ci si chiede: perché cercare una persona che non vuol farsi trovare? Perché imbarcarsi in una missione impossibile?
Perché ci ho veramente creduto, ho fatto tanti tentativi. Ci siamo detti: affittiamo una camera d’albergo, facciamo le riprese da fuori la finestra, filmiamo Gilberto come un’ombra cinese mentre suona, ma non è stato possibile. Però io non mollo, è ciò che mi fa vivere, se mi dicono che qualcosa è impossibile, io ci provo lo stesso. La sceneggiatura è scritta davvero come un film di finzione, ci sono 42 scene, i dialoghi, il tutto arricchito da situazioni documentarie che non erano previste. E’ comunque un film che si prende il suo tempo, ha la lentezza della saudade. La bossa nova è una musica molto interiore, intima, che depone un seme dentro di te e lascia tracce molto forti.

Alla fine, si rimane con il dubbio: lo ha incontrato oppure no, João Gilberto?
E’ una ricerca che deve restare aperta. Il film è sceneggiato apposta per dare speranza. La scena finale è un regalo che ho fatto a Fischer, ai suoi genitori (non avrei mai fatto il film se loro non fossero stati d’accordo). E’ anche un regalo che Gilberto fa a me e a Fischer, e a tutti gli spettatori. E’ tutto molto concreto: c’è questo corridoio, si sente che c’è una persona lì dietro la porta. Per me è stato molto forte.

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