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BIF&ST 2019

Veit Helmer • Regista di The Bra

“Ogni donna ha la sua strana ossessione e un motivo particolare per provare il reggiseno”

di 

- Abbiamo parlato al Bif&st di Bari con il regista Veit Helmer del suo film The Bra, ambientato in un quartiere molto particolare di Baku che non esiste più

Veit Helmer • Regista di The Bra

Un treno merci attraversa ogni giorno un piccolo quartiere di Baku, in Azerbaijan, trascinando con sé quello che trova. Un giorno rimane impigliato nei congegni del convoglio un intrigante reggiseno. Di chi sarà? È la trama di The Bra [+leggi anche:
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intervista: Veit Helmer
scheda film
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, il delizioso film senza dialoghi ma pieno di poesia del tedesco Veit Helmer, con interpreti Miki Manojlović, Denis Lavant, Paz Vega, Maia Morgenstern. Ne abbiamo parlato con il regista al 10° Bif&st di Bari, dove il film è selezionato nel Panorama internazionale. 

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Cineuropa: Come ha trovato questa specifica location per il suo film?
Veit Helmer:
Avevo già girato in Azerbaijan nel 2008 il film Absurdistan [+leggi anche:
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scheda film
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, e avevo ricordi divertenti del paese e della gente. Poi, facendo delle ricerche su Internet, mi sono imbattuto in un paio di foto di questo quartiere di Baku, chiamato Shanghai, dove la gente vive a pochi passi dal passaggio di grossi treni merci, e non ci potevo credere. Ci sono andato di persona, non è stato facile trovarlo, non ci sono strade né marciapiedi, quando passa il treno devi correre via altrimenti vieni travolto. Era il 2014, e mi dissero che questo quartiere sarebbe stato demolito. Ci sono voluti tre anni per preparare il progetto, e fortunatamente il quartiere era ancora lì. Oggi sono rimasti solo i binari, le case sono state tutte ricollocate.

Come è possibile che esistesse un insediamento del genere?
Molte case furono costruite dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Molti rifugiati arrivarono dal Karabakh, e ogni pezzo di terra a Baku fu usata per ospitare questa gente, in condizioni difficili. Hanno poi ottenuto gas, luce e acqua, ma non era un posto sicuro. Era importante demolirlo perché molte persone sono morte lì. Anche nel periodo delle riprese c’è stato un incidente, per fortuna non mortale.

E l’idea di mettere al centro del racconto un reggiseno, come nasce?
Quando esplori posti sconosciuti e strani, la scelta più naturale è prendere un outsider che arrivi in questo posto e cerchi di connettersi con esso. Io ho scelto un macchinista ferroviario, l’unico straniero che passa per questo quartiere, ogni giorno. Il treno ogni tanto trascina con sé dei pezzi, e l’idea è stata che l’ultimo giorno prima della pensione, questo macchinista trovasse un reggiseno. Tutti i pezzi che ha ritrovato durante la sua lunga vita lavorativa erano facili da restituire: una tovaglia, un pallone… Ma un reggiseno è una questione più delicata: trovarne la proprietaria era una ricerca più interessante.

Una questione davvero delicata, anche perché queste donne di volta in volta devono provarsi il reggiseno…
Ho scritto il film insieme a Leonie Geisinger. L’idea è stata di inventare sei scene principali in cui lui entra nelle case e chiede alle donne di provare il reggiseno, un po’ alla Broken Flowers di Jim Jarmush, dove Bill Murray entra in diversi universi, uno dopo l’altro. Volevamo che le donne fossero la forza trainante: lui è l’ingenuo che vuole restituire il reggiseno, ma ciascuna di loro ha la sua strana ossessione e un motivo particolare per provarlo. Sono tutte un po’ matte, ma credibili. 

Molti definiscono questo suo film una favola. Condivide questa etichetta?
Non la condivido, perché mi piace raccontare storie con situazioni insolite, ma qui tutto è possibile. La fiaba ha qualcosa di soprannaturale, mentre per questo film parlerei più di poesia o di realismo magico. Certo, se qualcuno mi chiede di definire il film in poche parole, dico che è come Cenerentola con un reggiseno al posto della scarpetta. Ma in realtà, non volevo che l’uomo trovasse la proprietaria. 

Il film è senza dialoghi, così come il suo primo lungometraggio Tuvalu. Che cosa la spinge a questo tipo di narrazione?
Poche storie possono essere raccontate in quel modo, ma se ci riesci è molto gratificante, soprattutto quando vedi che il pubblico entra in sintonia con questa esperienza magica. Mi sento connesso con questo tipo di storytelling perché è universale: non c’è doppiaggio né sottotitoli, non perdi il significato e il sentimento originali. Presenti il film così come l’hai concepito. Lo spettatore si connette a un altro livello, volevo che fosse un’esperienza spirituale. Ma non dite al mio sound designer che è un film muto! Il lavoro sul suono è stato intenso: ciò che non viene detto con le parole, viene detto con immagini e suoni.

È stato difficile girare in quel quartiere di Baku?
In Azerbaijan erano inorriditi all’idea che girassi un film lì, hanno cercato di fermarmi. Immaginavano che venisse fuori un film orribile, di realismo sociale dark e deprimente. Ma io ho visto i colori in quel quartiere: la gente mantiene la propria dignità, mette bellissime piante di fronte alle povere case. Volevo mostrare questa bellezza. Lo stesso ministro della Cultura che voleva impedire le riprese, ha poi invitato il film a Baku, all’Italian-Azerbaijan Film Festival, e abbiamo vinto il primo premio. Non volevo farne un brutto ritratto, lo vedevo come un quartiere unico. E ora che non c’è più, il film ha anche un’altra valenza: è un documento storico.

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