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VENEZIA 2019 Concorso

Hirokazu Kore-eda • Regista di Le verità

"Con il successo, arriva sempre un po' di solitudine"

di 

- VENEZIA 2019: Cineuropa ha incontrato l'acclamato regista giapponese Hirokazu Kore-eda, che ha lasciato il suo paese d'origine per riflettere sulla famiglia e la fama in Le verità

Hirokazu Kore-eda  • Regista di Le verità
(© L Champoussin/3B/Bunbuku/MiMovies/FR3)

Vincitore della Palma d’Oro (per Un affare di famiglia del 2018), Hirokazu Kore-eda scambia temporaneamente il Giappone con la Francia e – ora questo fa paura – le sue più grandi leggende della recitazione con Le verità [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Hirokazu Kore-eda
scheda film
]
. È un prestigioso film drammatico, con protagoniste Catherine Deneuve e Juliette Binoche rispettivamente nel ruolo della star cinematografica Fabienne, fresca della pubblicazione delle sue memorie, e della figlia Lumir. Scelto per l’apertura della 76esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è anche in concorso per il Leone d’Oro.

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Cineuropa: Ho sentito dire che sia stata per prima Juliette Binoche a influenzarti e a incoraggiarti per questo progetto, di fatti qualche anno fa. In che modo esattamente?
Hirokazu Kore-eda: Prima di stabilire il soggetto effettivo del film, Juliette mi ha chiesto gentilmente se fossi interessato a realizzare un film insieme – eravamo nel 2011. All’inizio l’idea era di girare le riprese in Giappone, ma poi ho pensato che invece sarei andato in Francia e avrei lavorato con una troupe francese per cambiare. Dopodiché ho deciso che avrei voluto che la protagonista fosse un’icona del cinema francese, qualcuno che potesse davvero incarnarne l’intera storia. Potrei dire che all’inizio avevo queste tre persone in mente [compreso Ethan Hawke nel ruolo del marito di Lumir].

Proprio come il personaggio di Catherine, Fabienne, ho raggiunto un certo livello di successo, e si potrebbe pensare che la cosa in sé eviti che ci senta soli. Ma con il successo arriva sempre un po’ di solitudine. Penso sempre alla famiglia che mi lascio dietro. Ora sono qui, a Venezia, ma da solo.

Quando di recente ho incontrato Catherine Deneuve a un altro festival ha detto di non riconoscersi davvero in Fabienne. Tuttavia, nel film sono presenti tutte queste battute che in realtà sembrano riflettere la sua storia personale o i suoi modi di vedere. È stato fatto di proposito?
Catherine è uno spirito libero. È divertente averla attorno, specialmente se una scena va bene. Ho svolto numerosi e lunghi colloqui con Catherine, ed ero particolarmente interessato agli albori della sua carriera e alla relazione con la sua famiglia. Ho usato questi elementi per scrivere il copione. Per esempio, le ho fatto la stessa identica domanda che un giornalista pone a Fabienne all’inizio del film: se ci fosse qualsiasi altra attrice che avesse ricevuto il suo DNA, e quindi di dirlo. Effettivamente lei ha risposto: “In Francia? Non credo.” Ho pensato che fosse una battuta interessante da inserire in un film, perciò l’ho fatto. Ci sono state anche altre cose, ma Catherine ha detto che questo personaggio è molto crudele, e se qualcuno usasse le sue stesse parole sarebbe sicuramente odiato da tutto il mondo. Quindi ha mantenuto la distanza, ma era interessata a interpretare questa donna molto particolare in un modo per cui se ne potesse anche ridere.

Nella maggior parte dei tuoi film sembri essere molto interessato alle dinamiche familiari. È stato difficile esplorarle in una lingua che non parli affatto?
In genere i giapponesi non sono così diretti. Nelle nostre famiglie utilizziamo più silenzi, me compreso. Tendiamo a evadere i confronti diretti e, se necessario, abbandoniamo il campo. In Francia ho avuto l’impressione che le persone si scontrino attraverso le parole. Da questo punto di vista, parlando della relazione tra madre e figlia, o tra moglie e marito, ho deciso di usare parole molto più forti rispetto a quelle che userei normalmente. A parte ciò, non ho percepito alcuna differenza significativa.

Nemmeno sul set?
Non mi sono sentito isolato sul set, perché ho avuto la fortuna di avere un’interprete estremamente brava che ci ha aiutato ogni volta. Grazie a lei non ho sentito alcuno stress a riguardo di una qualche possibile incomprensione. Mi ci è solo voluto più tempo, perché mentre ero in grado “sentire” una buona interpretazione avevo bisogno di un attimo per capire se l’audio fosse giusto, o per capire la pronuncia.

Catherine, per esempio, non è il genere di attrice che impara tutte le sue battute prima. Spesso si limita ad afferrare il ritmo della scena e poi comincia a recitare. A volte ho pensato: “Wow, è stata incredibile questa interpretazione”, giusto per poi parlare alla mia interprete e sentire: “Sì, ma il problema è che non ha usato una sola battuta del copione”. [sorride] Lei preferiva piuttosto comprendere prima le emozioni e dopo sistemare tutti i dettagli. Ho avuto bisogno di abituarmici.

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(Tradotto dall'inglese da Gilda Dina)

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