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GÖTEBORG 2020

David Aronowitsch • Regista di Idomeni

"Stavo cercando di fare un film politico facendo un film non politico"

di 

- Abbiamo incontrato David Aronowitsch, il regista di Idomeni, in competizione per il Dragon Award nella sezione Nordic Documentary di Göteborg

David Aronowitsch  • Regista di Idomeni

Il documentario Idomeni [+leggi anche:
intervista: David Aronowitsch
scheda film
]
di David Aronowitsch, mostrato in anteprima al Göteborg Film Festival, si incentra sulla vita di due famiglie yazide, che scappano dalle violenze subite per mano dell’ISIS. Ma come previsto, risulta che lasciare il paese non garantisce sicurezza, tantomeno condizioni di vita accettabili, poiché passano i giorni in attesa che qualcosa cambi. Abbiamo parlato con il regista riguardo al film.

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Cineuropa: Lei ci mostra dei momenti molto intimi, concentrandosi chiaramente sull’esperienza individuale. Come è arrivato a queste persone e alle loro storie?
Davis Aronowitsch
: Queste famiglie ci hanno ben accolto sin dall’inizio. Potrebbe sembrare un cliché, ma io ho davvero avuto l’impressione che fossero stati loro a scegliere noi, tanto quanto noi abbiamo scelto loro. Ovviamente, costruire la fiducia e abituarsi alla camera rappresenta un lungo processo, ma in realtà è stato piuttosto magico. Essi ne hanno passate tante, hanno visto famiglie distrutte dall’ISIS e lo hanno vissuto in prima persona. Prendiamo come esempio Yasir, la cui moglie, Khalida, è stata imprigionata dall’ISIS e suo figlio ucciso. Questo attacco brutale alla popolazione yazida è qualcosa che il mondo dovrebbe conoscere meglio, specialmente per quanto riguarda la loro situazione negli accampamenti – prima in Turchia, poi in Grecia [oltre al villaggio Idomeni, titolo del film]. Vivono in pessime condizioni, incapaci di voltare pagina. Inizialmente, sono state fatte alcune manifestazioni contro la chiusura delle frontiere, evento che tutti i maggiori media hanno coperto. Sembrava ci fosse speranza, ma poi se ne sono andati tutti, non c’è stata più alcuna notizia. Immagino che abbiano pensato che girare questo film fosse importante, non abbiamo neanche dovuto discuterne molto.

È stato detto molto su ciò che succede alle donne catturate dall’ISIS, ma ha deciso di non condividere troppi dettagli a riguardo. Perché? È una questione di rispetto per la famiglia?
Non volevo opprimerli. Quando si sono riuniti, quattro anni dopo che lei era stata catturata, noi c’eravamo – proprio quando si sono incontrati all’aeroporto. Inoltre, non era proprio questo il “carattere” del film. C’è solo un’intervista. Non conosco tutto ciò che lei ha passato; so qualcosa, e forse un giorno avrò il piacere di parlarne con lei. Quindi sì, è stata una decisione cosciente. Una decisione umana, direi. È stato un momento colmo di gioia quando si sono incontrati, ma anche molto difficile – credo che ve ne renderete conto durante il film.

È anche un po’ assurdo il fatto che la famiglia l’abbia accolta con dei fiori, come se fosse tornata da un viaggio. Nessuno sapeva come reagire.
Non sai come reagire. Hanno faticato molto affinché accadesse; hanno continuato a sperare, e quando finalmente è successo, è servito un po’ di tempo per assimilarlo. Ci sono stati molti casi, durante la produzione di questo film, in cui a qualcosa di felice seguiva qualcosa di tragico. Il fatto è che stiamo parlando di migliaia di persone, costrette a vivere in circostanze realmente orribili. Ho prodotto altri film su questo argomento, da diverse prospettive, per molti anni. In passato mi sono concentrato maggiormente sulle istituzioni e organizzazioni, ma col tempo ho iniziato ad interessarmi alle persone. È stato un passo naturale. Stavo cercando di fare un film politico facendo un film non politico. E così, gradualmente, conosci persone vittime di genocidio, e anche vittime del sistema migratorio.

C’è una scena in cui lei si siede accanto a Yasir, invece di guardarlo negli occhi. Una volta che si è avvicinato di più a loro, anche il suo approccio registico è cambiato?
È stata una decisione importante quella di includere l’intervista, rompere con l’approccio “mosca-sul-muro”, anche se non mi piace molto questa espressione. Ma era anche un po’ sciocco fingere che la camera non ci fosse. Non volevo rimanere legato alla forma, e ciò era necessario per procurarsi queste informazioni, ascoltare come hanno perso il loro bambino di un anno. Nei documentari, molto ruota intorno alle informazioni – quante ne hai, come le trasmetti allo spettatore, quante ne puoi trascurare. Io volevo solo saperne di più. Non come regista, ma come me stesso, David. È stato lo stesso con [l’altra famiglia] Nadia e Nawaf. Yasir è una persona sensibile; scrive poesie romantiche, ma a volte può sembrare un po’ duro. Questa scena ne è un esempio. L’ho vista un centinaio di volte e ancora mi toglie il fiato.

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(Tradotto dall'inglese da Chiara Morettini)

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