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BERLINALE 2020 Panorama

Jeanette Nordahl • Regista di Wildland

"Stavo cercando di creare tensione in un modo non ovvio"

di 

- BERLINALE 2020: Abbiamo parlato con Jeanette Nordahl, la regista esordiente del titolo selezionato in Panorama Wildland

Jeanette Nordahl  • Regista di Wildland
(© Morten Germund)

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, proiettato nella sezione Panorama della 70ma edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, Jeanette Nordahl dimostra quanto nei crime drama possa esserci di più che una semplice fuga dal pericolo. Come la sua protagonista adolescente scopre nel momento in cui viene affidata alle cure di una zia, a volte le persone più temibili sono quelle che abbiamo dentro casa.

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Cineuropa: Esistono diversi modi per mostrare una vita criminale, ma lei ha scelto uno scenario particolarmente ridotto: una madre [interpretata da Sidse Babett Knudsen] e i suoi tre figli.
Jeannette Nordahl: La famiglia è ciò che mi interessa di più. Volevamo esplorare il potere di questa comunità, e ci è sembrato naturale parlarne nello stile di un film di mafia, o di un crime, perché fosse più coinvolgente. In Wildland c’è una certa gerarchia, in cui la matriarca interpretata da Sidse, Bodil, rappresenta la figura più importante. I suoi figli agiscono in funzione di quanto stabilito dalla madre: il più grande fa tutto ciò che dice lei, il secondo fa i capricci e il più piccolo non è che un bambinone cresciuto senza una voce propria. Nonostante le loro differenze, quello che li accomuna è la fedeltà alla famiglia. E, come abbiamo visto, è proprio qui che risiede il vero pericolo.

Vengono in mente film in cui figure materne forti come questa diventavano quasi caricature, come quella di Kristin Scott Thomas in Solo Dio perdona [+leggi anche:
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, ad esempio. Lei come l’ha interpretata?
Bodil è un personaggio terribilmente interessante, da indagare: una tipica antieroina, nel senso che non vede i propri difetti. La lealtà e l’amore familiare sono le cose a cui tiene di più; sono alla base di tutto ciò che fa, e sono proprio queste qualità a renderla così complessa. Non è un personaggio malvagio, sta semplicemente cercando di proteggere la propria famiglia, con ogni mezzo a sua disposizione. È un personaggio in un certo senso “amplificato”. Il modo in cui manifesta il suo affetto è molto fisico, così come lo sono le conseguenze quando qualcuno non le obbedisce. Con gli attori abbiamo deciso di andare oltre l’istinto naturale, pensando che nel caso in cui non avesse funzionato avremmo sempre potuto abbassare i toni in seguito.

La sua protagonista, Ida, non sembra andare d’accordo con l’intensa fisicità di questo rapporto. Esprime le sue emozioni di rado, se non mai.
Il personaggio di Ida è molto passivo, o forse è meglio dire che si tratta di un’osservatrice. Non lascia trapelare le proprie emozioni, e l’abbiamo usata per creare tensione. La cosa divertente è che la prima cosa che ti insegnano alla scuola di cinema è “mai avere un protagonista passivo!”. Sapevamo che sarebbe stato difficile, ma anche che era una situazione che eravamo in grado di gestire. Appena ho trovato Sandra [Guldberg Kampp, al suo esordio] mi è stato chiaro che potevamo dare a Ida tutto ciò che le serviva, per dare vita al suo personaggio. Sandra ha una certa presenza, e lo spettatore diventa curioso di sapere cosa sta pensando.

Ognuna delle donne che ci mostra fa una diversa esperienza del concetto di famiglia. È qualcosa su cui ha voluto concentrarsi espressamente, anziché nasconderla come fu nel caso di Diane Keaton ne Il padrino?
Volevamo capire quale fosse l’eredità tramandata dalle donne che cercano di tenere unita una famiglia. In un certo senso, credo che sia un modo di sottolineare il messaggio che volevamo trasmettere con questa storia. Mostriamo il potere della comunità, la difficoltà di non riuscire a liberarsi da un cammino già tracciato di fronte a sé. È stato semplicemente più logico seguirlo da una prospettiva femminile, dal momento che sono loro a mandare avanti la famiglia, in senso molto fisico. Tutti i personaggi più giovani cercano di fuggire, in un modo o nell’altro. Ma quale prezzo sono disposti a pagare?

Nel suo film affronta temi importanti ma su piccola scala, con i personaggi confinati nella stessa casa. Come ha deciso di usare questo spazio?
Stavo cercando di creare tensione in un modo non ovvio. Non ci sono nemici esterni, non si scontrano con la polizia né vengono coinvolti in nessuna sparatoria. Quindi la sfida era quella di prendere il pericolo e di trasferirlo all’interno dello spazio domestico, in cui una semplice carezza o un bacio possono diventare gesti ugualmente scomodi o minacciosi. Il vero pericolo è quello che risiede all’interno dei personaggi. Di solito quando arrivi al terzo atto gli eventi cominciano ad accelerare, tutto va sempre più veloce finché non si raggiunge una sorta di climax. Noi volevamo procedere al contrario. Quando il pericolo aumenta, il ritmo continua a rallentare lasciando che i personaggi rivelino la loro vera natura.

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(Tradotto dall'inglese da Michela Roasio)

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