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Italia

Cosima Spender • Regista di SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano

“Il genere del documentario sta avendo una rinascita”

di 

- Abbiamo parlato con la regista della docu-serie Netflix che ha riscosso grande successo in Italia

Cosima Spender • Regista di SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano

SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano [+leggi anche:
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è la prima docu-serie italiana originale Netflix. Sviluppata, scritta e prodotta da Gianluca Neri e prodotta da 42, è rimasta per settimane nella top ten dei titoli più visti in Italia. Tre anni di lavoro su 180 ore di interviste e immagini tratte da 51 differenti archivi per ricostruire la storia della comunità di recupero per tossicodipendenti fondata nel 1978 vicino Rimini e guidata dal controverso Vincenzo Muccioli. Una storia che ha diviso un’intero Paese negli Anni Ottanta, quando l’Italia era inondata dall’eroina: da una parte chi considerava Muccioli l’uomo che stava salvando centinaia di giovani, dall’altra i detrattori che condannavano i metodi coercitivi che portarono addirittura ad un omicidio. Cineuropa ha intervistato la regista anglo-italiana Cosima Spender, studi alla prestigiosa National Film & Television School e numerosi documentari all’attivo.

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Cineuropa: Come è entrata nel progetto SanPa?
Cosima Spender: Quando il pitch era già pronto. Mi ha chiamato Nicola Allieta (produttore con 42), che era un fan del mio film Palio [+leggi anche:
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del 2015, acquisito da Netflix. Visto che questa sarebbe stata la prima docu-serie italiana, la 42 stava cercando un regista fidato che potesse assicurare un risultato positivo per il pitch del film. Io avevo fatto dei film per Storyville (BBC Four) dove lavorava Kate Townsend, attualmente direttore degli original documentaries di Netflix. Conosco Kate Townsend da molti anni, e Netflix aveva comprato già nel 2011 il mio doc Without Gorky. Abituata a fare film da massimo 90 minuti, io ero abbastanza scoraggiata dall’idea di fare sei episodi, sarebbe stata una vera sfida.

Cosa l’ha convinta?
Sono cresciuta in Italia fino a 14 anni e non conoscevo questa storia ma mio marito Valerio Bonelli, che è il montatore di Sanpa (ha lavorato anche a Darkest Hour [+leggi anche:
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, Philomena [+leggi anche:
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), mi ha incitato a farlo perché è una storia affascinante, sulla quale oggi, a distanza di 25 anni, siamo pronti a riflettere. Quando sono uscita dalla scuola di Cinema nel 2001, tutti mi dicevano che il documentario era morto, che ci volevano tre anni a metter insieme i soldi, la BBC ti dava al massimo 50,000 sterline… Era piuttosto doom and gloom, una situazione molto cupa all’epoca. Oggi il genere del documentario sta avendo una rinascita grazie a Netflix, che ti dà l’opportunità di entrare in profondità in queste storie, per le quali 90 minuti non bastano. Quella di Sanpa è una storia che è sempre stata vista bianca o nera ma con il format delle doc series puoi entrare in tutte le sue nuances. Grazie al successo che ha avuto in Italia io penso che ci sarà una rinascita anche in Italia, dove il genere è stato un po’ umiliato negli anni. Anche in Inghilterra, c’è stato il momento del reality tv con programmi come il Grande Fratello che prendevano tutto il budget delle tv che solitamente andava al factual.

Qualcuno ha scritto che Sanpa è giornalismo.
Da una parte lo è, è vero, perché abbiamo cercato di far vedere la storia a tutto tondo, con molti filmati d’archivio a dare supporto alle interviste, ma c’è anche molto storytelling, che è espresso nel montaggio, nel ritmo, che è quello del cinema e non del reportage. In questo modo puoi portare all’audience giovane di Netflix una storia che è riferita ad una generazione precedente.

Come avete creato un equilibro tra le tante figure in gioco in quella storia così complicata e ambigua, senza il rischio di dare troppo spazio alle accuse o alle difese?
Gli esseri umani sono ricchi di contraddizioni, di emozioni ambivalenti.  Abbiamo cercato di rendere la storia da quel punto di vista, cercando di capire questi personaggi con degli archi narrati complessi e interessanti. Sono sempre pensato che il ruolo del regista di documentari è quello di presentare una situazione, poi sta all’audience farsi un’idea. È importante empatizzare con tutti i protagonisti, rendere la storia più tridimensionale possibile e portare il pubblico alla riflessione.

Netflix era sempre presente nelle tappe della produzione?
Si, molto. Ti aiutano a fare lo streamlining del prodotto. È una storia molto italiana ma per un pubblico internazionale e ci hanno portati a trovare la narrativa giusta. Ora mi arrivano telefonate da produttori italiani che dicono che non c’è esperienza per fare questi prodotti e chiedono come si faccia, anche in termini di regia. Credo che adesso le cose cambieranno.

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