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VENEZIA 2021 Concorso

Michelangelo Frammartino • Regista di Il buco

“A 400 mt di profondità per filmare il non governabile”

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- VENEZIA 2021: Il regista si è calato con un gruppo di speleologi in una grotta in Calabria per ricostruire l’impresa del 1961

Michelangelo Frammartino • Regista di Il buco
(© La Biennale di Venezia - Foto ASAC/Giorgio Zucchiatti)

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di Michelangelo Frammartino è in concorso della 78a Mostra del cinema di Venezia. Il regista ci racconta come si sia calato con un gruppo di dodici speleologi fino a quattrocento metri di profondità con la macchina da presa nell’Abisso del Bifurto, una grotta situata nell’altopiano del Pollino in Calabria, per ricostruire la prima esplorazione del 1961.

Cineuropa: Qual è stata la spinta iniziale per questo film?
Michelangelo Frammartino: L’incontro con Giulio Gecchele nel 2016 in un campo speleologico a cui partecipavo. E poi grazie a Antonio Larocca, noto speleologo calabrese, ho potuto conoscere l’imbocco del Bifurto. Ho scoperto un paesaggio cinematograficamente interessante. Venni a conoscenza di questo gruppo di giovanotti che nel 1961 scendevano da un nord in pieno boom economico, e avevano scelto quella grotta. Non cercavano la notorietà, non avevano nemmeno documentato l’esperienza. Scattarono solo qualche fotografia.

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All’inizio del film si vedono immagini d’epoca del grattacielo Pirelli a Milano. Due temporalità diverse: una racconta la trasformazione rapidissima che ha subito l’Italia negli Anni 60, l’altra di un processo estremamente lento. E’ una riflessione sul tempo?
La grotta ti costringe ad un confronto con il tempo. Lì sotto non c’è il ciclo normale giorno-notte né i cambiamenti termici che regolano il nostro corpo e che rappresentano i nostri riferimenti. Si è nel buio, con la temperatura costante, e qualcosa accade anche a livello fisico. Si ha la sensazione di essersi calati da due ore e ne sono passate dieci. C’è uno smarrimento temporale che appartiene agli abissi.

E c’è inoltre il confronto fra il nord industrializzato e la cultura rurale calabrese.
Si tende ancora molto a guardare al Nord per cambiare le cose, io penso invece che esiste una cultura mediterranea molto importante a cui dovremmo prestare più attenzione.

Il periodo storico della spedizione è lo stesso delle inchieste al Sud dell’antropologo Ernesto De Martino. In entrambi i casi c’era l’idea di far scoprire dei territori ancora sconosciuti al resto d’Italia. Quei luoghi rimangono ancora in parte inesplorati?
Io sono calabrese quindi non mi sento un esploratore ma piuttosto un esplorato. La Calabria è una terra con una natura selvaggia, una dimensione informe e contraddittoria. In questo è profondamente italiana, perché il concetto di non finito fa parte della cultura del nostro Paese. Con la macchina da presa si conduce inevitabilmente un’esplorazione ma bisogna praticarla con molta cautela.

Si prova paura a sfidare quel buio?
Sembra un film coraggioso perché siamo entrati nell’abisso ma io ho sempre temuto la verticalità, le altezze mi creano fobie, quindi ho avuto molta paura all’inizio. Durante le prime entrate in grotta ero certo che la corda si sarebbe rotta, che non saremmo mai tornati fuori. La prima volta che siamo andati nel fondo del Bifurto eravamo stravolti dalla fatica, ci abbiamo messo 20 ore prima di risalire. Quando però abbiamo visto che nonostante la paura il progetto andava avanti ci siamo sentiti più forti e ho capito che dovevamo realizzarlo.

Condizioni difficili anche per il direttore della fotografia Renato Berta.
Mentre scendevamo con le macchine da presa fino a 400 mt di profondità la squadra di speleologi stendeva una enorme bobina di fibra ottica che trasmetteva a Berta le immagini. Ero in cuffia con lui mentre si trovava in una sala buia davanti ad uno schermo ad alta definizione, era come se lui fosse già uno spettatore al cinema mentre noi eravamo sul set. E poi l’assenza di luce ha bisogno di essere arricchita dai suoni. Per il film abbiamo scelto l’eccellenza, con l’utilizzo del Dolby Atmos 5.1 con quasi 50 sorgenti sonore per ricreare l’effetto di spaesamento.

E’ stato difficile amalgamare realtà e finzione?
Dicono che i miei lavori fanno parte della corrente del ‘cinema del reale’, che ha a che fare con l’ingovernabile che può mostrarsi di fronte alla macchina da presa. Operando una ricostruzione naturalmente la situazione è diversa. Però in questo caso, lavorando con gli speleologi in uno spazio molto stretto, i loro movimenti non potevano essere determinati dalle esigenze delle riprese. La dimensione del non controllabile quindi è rimasta ed è un bene. Se il film sfugge di mano è senz’altro più interessante. Renato Berta ha lavorato sul conflitto tra la smania di controllo e la voglia che la vita prenda il sopravvento.

Cosa significa per te essere in Concorso alla Mostra per un film così diverso dagli altri?
Il mio è un cinema carsico, che scorre sotterraneo. Fingo di essere a mio agio qui a Venezia in realtà non lo sono, ed il concorso è stata una sorpresa, pensavamo di andare in altre sezioni.

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