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BERGAMO 2022

Volker Schlöndorff • Regista di The Forest Maker

“La mia visione dell’Africa non è pessimistica”

di 

- Il regista tedesco ci ha parlato del suo documentario dedicato a Tony Rinaudo, agronomo che con l'aiuto degli agricoltori in Niger ha implementato un sistema di agricoltura conservativa

Volker Schlöndorff • Regista di The Forest Maker
(© BFM)

Presidente della giuria internazionale al Bergamo Film Meeting 2022, il regista tedesco Volker Schlöndorff ha portato al festival il suo ultimo lavoro, The Forest Maker [+leggi anche:
intervista: Volker Schlöndorff
scheda film
]
, documentario dedicato a Tony Rinaudo, agronomo australiano che oltre 25 anni fa, con l'aiuto degli agricoltori locali in Niger, ha implementato un sistema di agricoltura conservativa chiamato Farmer Managed Natural Regeneration (FMNR). Questo approccio ha avuto un tale successo che è stato applicato in almeno 24 paesi africani, assicurando il sostentamento di migliaia di agricoltori. Il regista di grandi film come Il caso Katharina Blum, Il tamburo di latta, Il silenzio dopo lo sparo, ci ha parlato del suo documentario e del cinema in generale.

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Cineuropa: È il tuo primo documentario lungometraggio e lo hai definito “documentary essay”.
Volker Schlöndorff: Infatti. È un tentativo di documentario [ride]. Ho partecipato ad alcuni documentari collettivi ma non avevo intenzione di girarne uno tutto mio finché non ho incontrato Tony Rinaudo e sono rimasto colpito da quest’uomo. Gli ho chiesto di poterlo seguire in Africa. Ho portato con me una camera e poi in Mali ho trovato un direttore della fotografia [Paapa Kwaku Duro] e tecnici del suono e così ho cominciato a girare senza sapere che sarebbe durata tre anni. Dagli alberi sono arrivato ai contadini, e poi alla migrazione, dalla migrazione alle condizioni di vita e l’ambiente. Il film non ha un vero formato di documentario, ha piuttosto forma di epistolario, una cosa segue l’altra, non ho avuto l’ambizione di reinventare il genere. Ma mi sono ricordato dei documentari di Chris Marker negli anni 60. Ce n’è uno in particolare a cui mi sono ispirato, Lettre de Sibérie, che ha una struttura aperta.

Parlare di Africa significa parlare delle nostre radici. Qual è la tua visione del continente?
Mi è piaciuta molto la genesi africana che l’etnologo Carl Einstein raccolse intorno al 1910. Bisogna dare agli africani l’opportunità di far sentire quello che hanno in testa, che è diverso dalla nostra cultura. Rinaudo ha imparato dalla gente e io sono andato lì con gli occhi spalancati. Sono ormai impegnato da 15 anni in Africa, in diversi paesi, soprattutto in Ruanda con una scuola di cinema. Ho stabilito un rapporto con molti giovani africani e la mia visione dell’Africa non è pessimistica, fatta solo di catastrofi e miseria. C’è vivacità, gentilezza e dolcezza nella gente. Un’umanità profonda che esiste ancora, lontana dal cinismo che contraddistingue gli europei. 

Però in tanti anni l’Africa non ha risolto i suoi enormi problemi.
Tutti sono d’accordo che i tentativi di sviluppo sono tutti falliti e hanno incoraggiato la corruzione. Come mi ha detto Rinaudo, “in 40 anni non ho mai visto arrivare un solo dollaro in un piccolo villaggio”. Si concentrano su grandi progetti in modo da poter prendere la loro fetta di torta. E questo ha reso difficile l’applicazione del suo metodo, che è affidato ai contadini.  Avrebbero bisogno di aiuti finanziari per sopravvivere mentre il terreno desertificato si rigenera e le piante crescono. Ma alle amministrazioni delle capitali africane questo non interessa perché gli abitanti delle zone rurali non vanno a votare alle elezioni! Le strutture e autorità locali non sono rappresentate nelle istituzioni. Eppure il 70% della popolazione vive in campagna quindi lo sviluppo dovrebbe essere concentrato lì, portando l’elettricità e l’acqua. Eppure io trovo l’agricoltura sexy!

Il distributore Weltkino ha deciso di portare il film in tour dal 5 aprile cominciando da Berlino.
Si, 31 città, 44 cinema in tutta la Germania. Accompagnerò il film ogni sera, in certi casi due volte al giorno. I cinema che programmano film arthouse sono in crisi, il distributore ha detto che per un documentario non conveniva una distribuzione classica in sala, e quindi la mia presenza è richiesta.  

Un metodo di circolazione che è il futuro del cinema di qualità.
Penso che la generazione più anziana vuole andare fuori casa a vedere i film ma il pubblico si è ridotto della metà dopo la pandemia. C’è stata come una frattura biologica con l’Internet. E le generazioni successive hanno trovato più familiari i contenuti digitali. Con le piattaforme si vedono più film di prima, la produzione è aumentata, il formato di film di cento minuti si è trasformato. La dinamica dei film della generazione precedente era l’emozione condivisa con gli altri. Con le serie, il coinvolgimento è più cerebrale.

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