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BIF&ST 2023

Pierluigi Ferrandini • Regista di Percoco - Il primo mostro d’Italia

“Gli atti orrendi sono il cortocircuito che ti fa capire che l’intero diagramma non funziona”

di 

- Il regista barese ci parla del suo primo lungometraggio, sul primo stragista familiare italiano del ‘900 e gli agghiaccianti dieci giorni successivi al delitto

Pierluigi Ferrandini  • Regista di Percoco - Il primo mostro d’Italia
(© Rocco Giurato per Rai Cinema)

Il primo stragista familiare della storia d’Italia si chiama Franco Percoco, ha 26 anni ed è barese. È il 1956, gli anni del boom economico, e a raccontarcelo è il primo lungometraggio di Pierluigi Ferrandini, Percoco - Il primo mostro d’Italia [+leggi anche:
trailer
intervista: Pierluigi Ferrandini
scheda film
]
, in concorso nella sezione ItaliaFilmFest del 14° Bif&st - Bari International Film&Tv Festival, e nei cinema dal 13 aprile con Altre Storie. Abbiamo parlato con il regista del suo film, tratto dal romanzo Percoco di Marcello Introna.

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Cineuropa: Il libro racconta la storia di Percoco da quando era adolescente, lei invece si concentra sui dieci giorni successivi al delitto. Perché questa scelta?
Pierluigi Ferrandini:
Il libro abbraccia un arco temporale di dieci anni. Alla fine, però, ciò che rimane più impresso a tutti è che questo ragazzo, oltre ad aver ucciso padre, madre e fratello, ha convissuto con i loro cadaveri per dieci giorni, dandosi alla bella vita. Sono i dieci giorni che consacrano la mostruosità di Franco Percoco. Ho deciso di raccontare un true crime dove tutto è rigorosamente accaduto, e tutto è riprodotto fedelmente fino all’ossessione. Ho potuto accedere agli atti del processo e alle foto della scientifica, che vediamo alla fine del film, e ho deciso di riprodurre esattamente la casa di Franco non solo negli spazi ma anche nei mobili, nei materiali, nelle suppellettili: è una casa tardo ottocentesca dove si respira un’aria mortifera.

Chi era davvero Franco Percoco?
Franco Percoco non nasce mostro e non muore mostro, vive una vita da ragazzo normale fino ai 26 anni, poi compie un eccidio terribile, ma subito dopo si presenta al processo con una fascia nera al braccio. La prima parola che rivolge ai carabinieri quando lo acciuffano è “aiutatemi”, come se il mostro lo avesse posseduto e poi abbandonato dopo quei dieci giorni. Era stato condannato all’ergastolo, ma per buona condotta si è fatto solo 23 anni di galera. Ha vissuto poi altri 21 anni a Torino come semplice impiegato, si è anche sposato. La vicenda umana di Percoco ci coinvolge profondamente, perché è la storia di un ragazzo schiacciato da forti pressioni sociali, non solo familiari. È il periodo del boom economico, la società si sta fortemente riassettando dopo il disastro della guerra. Se volevi aspirare a un certo status non potevi non essere laureato. Oggi questo concetto è un po’ tramontato, ma resta vivo il problema di ciascun giovane che fa i conti con quello che vorrebbe essere e quello che si ritrova a essere, perché nato in un certo contesto. La vicenda di Percoco è attuale nella misura in cui sono attuali gli errori che un ragazzo può commettere, che una società e anche una famiglia possono commettere: da questa storia escono sconfitti tutti.

Il film, infatti, è anche uno spaccato della classe borghese di quei tempi e delle sue ipocrisie.
Un tema importante del film, che rispecchia l’ideologia dell’epoca, è quello del nascondimento. Percoco nasconde i cadaveri dei genitori alla società, e io ho deciso di nasconderli allo spettatore, affinché si cali nella psicologia di un ragazzo che sta ancora cercando di capire quello che ha fatto. Avrebbe diverse opportunità: consegnarsi, o scappare e tentare una vita altrove, ma decide il male come salvezza. Anche i genitori di Percoco nascondevano il loro figlio down, così come nascondevano il fatto che il figlio maggiore, Vittorio, era carcerato: in otto anni di galera non sono mai andati a trovarlo. Il nascondimento è la vera malattia della classe borghese, questa idea di nascondere le cose pensando che sia per il bene di qualcun altro. Franco non voleva vivere la sua vita da semplice ricco, ma diventare un uomo della Bari bene, con un buon lavoro, un buon stipendio, una bella mogliettina e una fantastica amante. Negli atti del processo ci sono centinaia di pagine di perizia psichiatrica in cui si racconta liberamente, e arriva a dire che tutta la sua vita non è stata altro che una bella banconota falsa.

Che tipo di lavoro ha fatto con l’attore protagonista, Gianluca Vicari?
Ho cercato di riprodurre una diretta di quelle nove notti e dieci giorni in cui Percoco convive con il proprio mostro, e ci tenevo che venisse fuori la sua ambiguità, che lo spettatore avvertisse tutta la forza del suo conflitto interiore. Abbiamo quindi lavorato fisicamente sul blocco della parte superiore della faccia. Un’espressione vitrea accompagna quasi tutto il film. Il viso di Gianluca è diviso in due: c’è una parte fissa (gli occhi) e una parte mobile (la bocca, che mente). In realtà mentono tutti: anche la fidanzata, che dice di essere a suo agio ma non lo è per niente, e l’amico Enzo, che si ritrova in una circostanza in cui è costretto a fare lo sbruffone.

La dicotomia di Percoco si riflette anche nell’estetica del film.
Ho puntato molto sul creare un mondo fuori e uno dentro. La casa è il tumulo dove si annida il male, come un cancro. Tutti i materiali della casa (il legno scuro, i tessuti alle pareti) sono fotoassorbenti; i materiali di fuori sono invece quelli del boom economico, metallici, laccati. Le inquadrature in casa sono fisse, asfittiche, le geometrie sono schiaccianti. Fuori ho creato un movimento più dolce, con la steadycam, dando l’impressione che Percoco volesse farsi trascinare dal flusso della bella vita.

Il suo film è tutt’altro che didascalico. Ha mai avvertito questo come un pericolo, ossia che potesse lasciare lo spettatore insoddisfatto?
È uno spaccato quasi asettico, cerco di non prendere posizione, non ci sono spiegazioni, né flashback, prologhi o epiloghi, nessun approfondimento sulle psicologie secondarie. Volevo dare l’impressione della vita vera con le sue incongruenze. Avrei potuto creare situazioni in cui si capiva perfettamente chi era il padre, chi era la madre, perché la fidanzata si comportava in un certo modo, invece ho voluto dare l’illusione allo spettatore di aprire uno squarcio di luce su Percoco, nel momento in cui nasce il mostro. Dentro le vicende di un mostro c’è sempre un piccolo insegnamento, i suoi atti orrendi sono come un foruncolo che esplode, il cortocircuito che ti fa capire che l’intero diagramma non funziona.

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