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Mercedes Alvares • Regista

"Catturare l’ombra del tempo"

di 

- Incontro con una regista che coglie l’umanità con lo 'stile libero' del documentario

Incontrata a Parigi, la documentarista spagnola Mercedes Alvares racconta a Cineuropa l’avventura del suo primo lungometraggio: Il cielo gira. Dal tema affrontato nel film, alla scelta del genere, al successo riscosso nei festival, la regista ricostruisce il percorso di un esordio cinematografico originale caratterizzato da uno sguardo aperto e sensibile a cogliere e raccontare l’umanità in tutte le sue manifestazioni. Uno stile espresso liberamente, senza timore di andare controcorrente.

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Cineuropa : Perché hai deciso di fare dello scorrere del tempo il tema principe del tuo film?
Mercedes Alvares : il film parla della fuggevolezza del tempo. Il cinema è una delle rare arti che offrono la possibilità di testimoniare il fluire del tempo e soprattutto di dar conto di quelle tracce impercettibili che lascia sulle persone e sulle cose senza che nessuno se ne accorga. Ho voluto raccontare questa storia attraverso il cinema perché questo mezzo ha la capacità di cogliere l’immagine, di congelarla, permettendo di riguardarla con calma, con maggiore attenzione. È un’arte che permette di catturare l’ombra del tempo che passa e soprattutto di dar voce a chi, consapevole dell’ineluttabile velocità del tempo che fugge via, parla della vita e della morte.

Perché proprio la provincia di Soria, in Castiglia, a fare da sfondo a questo tema?
In questa regione il presente convive con rovine di diverse epoche storiche. Laggiù questi resti trasmettono qualcosa di talmente forte da farti sentire, quasi fisicamente, il passato. Nel film si vede come, nel corso degli anni, la regione abbia conosciuto dei periodi di forte vitalità, di cui la storia ha conservato traccia, come la torre araba o le rovine romane. La gente del luogo è consapevole del fatto che ogni cultura scompare per cedere il posto ad un’altra. Alla fine, tutto si ripete, man mano che si avvicendano le civiltà, nella storia come nel mondo ciclico della natura. In più, in questo angolo tutto è silenzioso e si può quasi percepire la presenza del passato, cosa ormai impossibile nelle città, dove si è sempre incalzati dal futuro.

Avevi esordito con la fiction, cosa ti ha condotto al documentario?
E’ stata l’idea di un ritorno alle origini del cinema, di ritrovare l’innocenza dello sguardo che si aveva al tempo dinanzi alle immagini. Viviamo in un mondo saturo di immagini, che si impongono e sovrappongono l’una all’altra. Avere un’immagine che si lascia guardare, che dà il tempo per lasciarsi interpretare, contemplare, che permette di viaggiare attraverso di essa, offre allo spettatore la possibilità di riacquisire la capacità di guardare. È importante lasciar libero lo spettatore, come fa, per esempio, Kiarostami. Da parte mia, ho tentato di tornare alla tradizione del documentario alla Flaherty e soprattutto di fare come i pionieri: uscire, andare in strada a vedere cosa succede fuori. Non si tratta di seguire precetti astratti ma solo il buon senso dettato dall’esperienza diretta e presente. Il documentario permette di affrancarsi dalle rigide regole della fiction e di fare un po’ più di ricerca. Inoltre, l’aver vissuto con gli abitanti del villaggio mi ha reso possibile raccontare nel film anche l’esperienza vissuta con loro. In Spagna Vitor Erice con Il sogno della luce, un film in cui ha rinunciato agli attori ed ai testi prestabiliti ed ha semplicemente provato a dialogare con la realtà, ha aperto nuove prospettive al documentario. Ciò che trovo interessante in questo genere non è tanto l’utilizzare la grammatica della finzione per raccontare la realtà, quanto la possibilità di legare elementi molto diversi come ho fatto con il villaggio ed il pittore nel mio film. È un procedimento che si avvicina molto a quello di Chris Marker.

E’ stato difficile trovare i finanziamenti per Il cielo gira?
No, perché è stato commissionato dal Master dell’università Pompeu Fabra di Barcellona in associazione con Canal +. In seguito, si è aggiunto un finanziamento dell’ICAA, per un budget totale di 500 000 euro. Ho cominciato a girare in Beta digitale, poi sono passata ad una DV Cam. In ogni caso, credo che continuerò a lavorare in questo territorio di frontiera tra documentario e fiction. In effetti, il successo di Il cielo gira nei festival è stato una sorpresa, ma mi sono resa conto che riesci a toccare il pubblico e a far sì che la tua storia abbia portata universale solo rendendolo partecipe del tuo punto di vista, raccontandogli cosa hai visto, quasi in confidenza.

Cosa pensi del cinema spagnolo del momento?
Il problema in Spagna, è che i film sono piuttosto accademici nella forma, aspirano ad essere cloni del cinema americano e nascono per essere venduti. I film d’autore sono pochi ed hanno enormi difficoltà ad entrare nelle sale che sono controllate all’80-90% dal cinema americano. Non restano che pochi schermi disponibili per la produzione spagnola, e questi ultimi sono monopolizzati dai grandi film nazionali come quelli di Almodovar o di Amenabar. Di conseguenza, lo spazio è molto ridotto per gli altri film spagnoli, per non parlare degli europei. E perché fare film, se poi non possono essere visti?

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