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Laurent Achard • Regista

"Lasciar lavorare l’immaginazione"

di 

- Incontro con un regista audace che pone lo stile nel cuore dell’esplorazione umana

Spesso refrattario alle interviste, alle quali preferisce far parlare i suoi film, Laurent Achard ha invece concesso a Cineuropa un incontro per raccontare Le dernier des fous [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Dominique Barneaud
intervista: Laurent Achard
scheda film
]
, Premio Jean Vigo e Premio per la Regia a Locarno. Un’occasione unica per svelare le sfaccettature di una personalità complessa, interamente dedita all’arte cinematografica, che sfida le regole convenzionali dell’industria.


Cineuropa : Perché ha deciso di adattare questo romanzo di Timothy Findley ?
Laurent Achard : Il libro è molto ellittico, e mi permetteva di fare ciò che volevo. Mi sono ritrovato nella sensibilità di Findley come in quella di Tennessee Williams, Balzac, Faulkner o Proust, ma questo era, evidentemente, meno impressionante. E si capisce subito che il film sfocerà nel dramma, sin dal "Voglio raddoppiare" del bambino, che rivela uno smarrimento, una paura di ciò che non si conosce, ma anche la volontà di mantenere unito a tutti i costi un mondo che si sta spaccando.

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Perché si sceglie un soggetto difficile come quello di una famiglia travolta da una spirale di sventure?
C’è sempre un po’ di speranza, ma si tratta di una tragedia. Non esagero nulla. Sui giornali, leggo storie di omicidi, di infanticidi. Semplicemente, il film si svolge in un tempo concentrato, su alcune settimane prima che un bambino uccida i genitori. Quando si legge che un bambino ha ucciso tutta la famiglia, tutto diventa di un’oscurità assoluta, non è possibile parlarne. Si possono cercare spiegazioni come fa Foucauld, ma a un certo punto non si può prendere distanza, è impossibile farlo se non con la poesia.

La sua storia non offre alcuna chiave di spiegazione…
Non c’è nulla di dimostrativo nel film, nessun responsabile designato. Non m’interessa spiegare la follia della madre o l’omosessualità del fratello. Il cinema serve a mostrare, non a dimostrare. Ho eliminato tutta la sociologia, la psicologia. I giornalisti sono ossessionati da questo tema, ma è la forma, lo stile a contare, prima di tutto. E non si può parlare che per metafore, come Buñuel. Riprendere le azioni per come sono non è interessante. Bisogna lasciar lavorare l’immaginazione.

Ha trovato facilmente il bambino che interpreta Martin ?
Mentre facevamo il casting, era veramente impossibile riuscire a capire a cosa stesse pensando Julien Cochelin, esattamente come il personaggio del film. E Dominique Reymond ha una presenza immensa. Quanto a Pascal Cervo, è riuscito nel suo difficile compito, in scene estremamente complesse.

Lei utilizza spesso il fuori campo. Aveva un’idea prestabilita?
Tutto viene visto dal punto di vista del bambino. Non posso mostrare le cose frontalmente, ma so cosa accade intorno. Ed è questo che va mostrato e l’unico modo per farlo è usare il fuori campo. Tutti i bambini guardano dal buco della serratura per vedere quello che non dovrebbero vedere o per nascondersi e guardare senza essere visti. Ma non vedono tutto, e non capiscono tutto. A livello visivo, ho lavorato in questa direzione. Ho provato ad essere vicino al millimetro, calcolando il minimo piano, il minimo soffio. L’importante è: qual è il punto di vista della macchina da presa, chi c’è dietro? Se qualcuno esce da una porta e va a sedersi, semplicemente si fa una panoramica. E non è una mancanza di stile, al contrario. Perché cambiare asse, prendere un elicottero, mettere la macchina da presa sulla ruota di un’auto? Qualunque cosa, come i trucchi del Dogma.

Oltre a Renoir e Bresson, quali sono le sue influenze?
Ho scoperto il cinema da bambino, e mi piaceva tutto, i film belli e quelli brutti. Non potevo scegliere, perché c’era una sola sala nel paesino in cui abitavo. Nel corso delle settimane, potevo vedere L’aile ou la cuisse di Zidi, poi Ciao maschio di Ferreri. Una volta a Parigi, ho passato intere giornate in sala e mi sono fatto una mia cineteca: Grémillon, Duvivier, Vecchiali, Pialat, Demy, Rozier, Dreyer, Walsh, Rossellini, Fassbinder… e soprattutto Nicholas Ray. E poi amo il cinema horror, di suspense : Tourneur, Hitchcock, Bava, Argento, Franju, Carpenter, Haneke…

Come spiega il fatto che il suo film non è stato pre-acquisito da alcun canale televisivo?
Le televisioni sono definitivamente passate dal lato dell’industria. Vogliono commedie, soggetti di tipo sociale che raccontino le sorti delle classi medie, le banlieues.... Io racconto gente ‘piccola’, i ‘senza-classe’ dei quali nessuno parla mai. I canali tv accettano questo mondo solo nei reportage e nel documentario, non nella fiction. Il cinema è poesia, e la poesia dice cose ben più profonde e più vaste del reportage, che è sempre rassicurante e identificato.

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