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Thomas Vinterberg • Regista

"In Usa ho archiviato Dogma, ma il mio cuore è in Europa"

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Al Festival di Roma per presentare When a Man Comes Home [+leggi anche:
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(sezione "L'Altro Cinema", e in uscita in Italia in primavera per Teodora Film), il danese Thomas Vinterberg ha chiuso ("Ma solo per adesso", tiene a specificare) la sua avventura statunitense. Dopo due film di produzione americana piuttosto controversi (It’s All About Love [+leggi anche:
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e Dear Wendy), eccolo di ritorno in patria, per un'opera forse dettata da spunti autobiografici. A cominciare dal titolo. Protagonista il giovane Sebastian (l'esordiente Oliver Möller Knauer), che crede da sempre di esser figlio di un padre suicida: finché nella sua piccola cittadina di provincia non torna il cantante d'opera Karl Kristian Schmidt (interpretato da Thomas Bo Larsen)... è lui il suo vero padre, e le rivoluzioni della vita privata non finiscono qui.

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Cineuropa: Il film è già uscito in Danimarca, com'è stato accolto?
Thomas Vinterberg: Piuttosto male: o meglio, più freddamente che altrove. In Paesi vicini, geograficamente e per sensibilità, ad esempio la Norvegia, ha vinto premi e ottenuto buone recensioni: ma i miei connazionali non mi perdonano di essere andato in America, contribuendo ad archiviare il Dogma e quindi a distogliere l'attenzione degli spettatori di tutto il mondo dal cinema danese.

Dopo la fine di quell'esperienza, qual è la situazione del cinema danese contemporaneo?
Il Manifesto di Dogma fu un'ottima occasione di fare squadra, di unire i cineasti del Paese: noi firmatari ci vediamo ancora, con Lars von Trier e Susanne Bier siamo amici. Ma tutti abbiamo cercato altre strade, ci siamo allontanati da un movimento che stava diventando un brand, e avrebbe finito per limitare la nostra creatività. Oggi il clima di allora non c'è più, i giovani registi del mio Paese sono soli, brancolano nel buio. Per il cinema danese è un momento di crisi, forse il peggiore della sua storia: ma credo che questa situazione possa essere anche un sintomo di vitalità.

When a Man Comes Home è un film che si avvicina, almeno nei contenuti (una riunione di famiglia, i segreti di una piccola comunità che escono alla scoperto), a Festen, il film che l'ha consacrata...
Sì, ma i punti di contatto tra i due film finiscono qui: questo è un film molto più caldo, organico. Per questo avrei voluto ambientarlo in Italia, ma i miei produttori hanno detto che sarebbe stato impossibile: Berlusconi ha fatto tabula rasa dei finanziamenti. Ho scelto di girarlo in pellicola: il 35mm è avvolgente, mentre il digitale è un modo più cinico di registrare la realtà. Con Festen ho dato un pugno in faccia al pubblico, mentre When a Man Comes Home è pensato come un film più morbido.

Nel cast del film, accanto all'esordiente Oliver Möller Knauer, c'è un veterano del suo cinema, Thomas Bo Larsen: com'è andato il lavoro con gli attori?
Con Thomas ho girato praticamente tutti i miei film: lavorare con professionisti come lui è comodo, il regista spiega cosa vuole, e lo ottiene. Con gli esordienti è tutta un'altra storia, loro dicono "Eccomi, sono qui, cosa devo fare?". È un approccio più complicato, ma entusiasmante.

Dopo i toni da commedia di questo film, continuerà con un registro leggero?
No, il mio prossimo progetto sarà un film molto cupo: inizio a girarlo a gennaio, sarà un film low-budget che scava nel cuore nero della Scandinavia, un noir tratto dal romanzo Submarino di Jonas T. Bengtsson. Un'opera profondamente danese.

Dunque per il momento non torna in America?
Non escludo di farlo, prima o poi: ma il mio cuore è in Europa, è qui che mi piace girare.

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