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Kornél Mundruczó • Regista

"Alla fine, chi è il colpevole?"

di 

- Estratti della conferenza stampa tenuta sulla Croisette dal regista ungherese, selezionato in concorso al Festival di Cannes 2010 con Tender Son - The Frankenstein Project

Perché ha dato un doppio titolo al suo film: Tender Son - The Frankenstein Project [+leggi anche:
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Kornél Mundruczó: La prima parte del titolo, Tender Son, riassume tutto ciò che noi, autori del film, pensiamo del mostro: di fatto, si tratta di un innocente. Ma volevo mantenere il riferimento al mito di Frankenstein, che è molto conosciuto soprattutto nel mondo artistico anglosassone. All'inizio, The Frankenstein Project era soltanto il nome che aveva il file della sceneggiatura sul mio computer.

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Il suo film sembra accreditare la teoria secondo cui la società giudica le persone, detta loro ciò che devono fare e le trasformano in mostri. E' questo il messaggio che vuole trasmettere?
In una società, i limiti sono sempre stabiliti dalla maggioranza. Ciò che mi interessa è posare uno specchio su queste frontiere. Cercavo più o meno di rispondere a questa domanda già nei miei film precedenti, ma stavolta è emersa con maggiore chiarezza durante la preparazione. E' per questo che ho deciso di ricoprire un ruolo principale e di porre questo quesito nel film: alla fine, chi è il colpevole? Nel corso della storia, ci si rende conto che il creatore del mostro diventa poco a poco come un padre e alla fine ci si chiede chi sia il vero responsabile degli omicidi.

Rompendo i muri che la società costruisce intorno alla gente, che li considera normali, il mostro evolve.
Questi muri sono molto sottili e la mostruosità indica gli atti che si possono compiere per romperli, per trovare diversi punti di vista. Ma io non do spiegazioni sociologiche, è tutta finzione.

Perché ha scelto questa scenografia tipica della Budapest antica, con questi grandi cortili interni dove si può girare in tondo?
E' stato un processo molto lungo trovare un luogo attraverso il quale potessi esprimere quello che penso di Budapest, dove io stesso sono arrivato da straniero, visto che non ci sono nato. All'inizio, pensavo che girare nella natura fosse più adatto al mio stile. Durante i sopralluoghi, abbiamo trovato questo edificio e abbiamo deciso di girarvi quasi tutto il film. Ognuno, nel nostro mondo, può riconoscersi in questo senso di chiusura, di claustrofobia. L’architettura è diventata una metafora a più livelli: non si sa che cosa ne sarà di questo immobile scalcinato, se andrà distrutto o ricostruito, e questo sistema di corridoi interni funziona come una prigione, come il riflesso del mondo in cui tutti viviamo.

Quali erano le sue intenzioni riguardo alla straordinaria dimensione visiva del film?
Si tratta di un universo e di un'immagine molto semplici, ma anche insoliti per un film contemporaneo. Abbiamo usato le lenti anamorfiche come nei vecchi film hollywoodiani, e delle luci molto bianche. La storia si svolge in inverno e, nella seconda parte, esclusivamente sulla neve, perché ha più significati: è l'elemento acqua, ma dà allo stesso tempo una certa sensazione di calore. Per me, l'elemento visivo è più importante della storia. Vi sono molti movimenti di camera nel film, ma tutti funzionali. Ho un direttore della fotografia notevole: componiamo insieme, ma è lui che ha l'occhio buono. Nei film attuali, il design inganna lo spettatore ed è difficile trovare un capo operatore che cerchi l'immagine e che si interessi alla storia.

Qual è il suo punto di vista sulla situazione del cinema in Europa centrale e orientale?
Non ne vediamo ancora bene la direzione, ma una nuova generazione di registi sta emergendo. In un certo senso, noi siamo la generazione zero, perché non abbiamo ricordi diretti dell'epoca della cortina di ferro. Ma esiste una tradizione del cinema ungherese ed è bene ricollegarsi ad essa.

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