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FESTIVAL Europa

Donne spaesate a Locarno

di 

Donne, donne e ancora donne: perdute e ritrovate, in viaggio verso territori sconosciuti, alle prese con lingue che non sono le loro (ma che parlano benissimo). È un universo di donne “spaesate”, da un punto di vista geografico più che esistenziale, quello che si è visto nel concorso dell’ultimo Festival di Locarno, vinto non a caso da un film declinato al femminile sin dal titolo: She, a Chinese [+leggi anche:
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della cinese – ma residente in Inghilterra – Xiaolu Guo (la rivedremo alla prossima Mostra di Venezia con il documentario Once Upon a Time Proletarian), storia della giovane Mei, che insoddisfatta della vita nel proprio villaggio decide di trasferirsi prima nella vicina città di Chongquing, e di lì in Inghilterra (con i soldi trovati in casa dell’amante gangster, morto sotto i suoi occhi).

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È meno lungo, ma cinematograficamente più riuscito, il viaggio dell’olandese Anne, che all’inizio di Nothing Personal [+leggi anche:
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intervista: Urszula Antoniak
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(esordio della polacca Urszula Antoniak, vincitore del Pardo per l’opera prima) lascia il suo Paese alla volta dell’Irlanda, dove la seguiamo nel suo vagabondare fino all’incontro con Martin (straordinario Stephen Rea), che vive solo in una casa sperduta nel verde, le propone di lavorare per lui in cambio di vitto e alloggio: lei (di Lotte Verbeek, premiata come migliore attrice, sentiremo ancora parlare) accetta, a patto che l’uomo non faccia domande. Niente di personale, come da titolo, ma col tempo il rapporto cambia, venato – come il film – di un umorismo sottile e laconico che ha conquistato il pubblico del festival.

Non è entrato nel cuore degli spettatori, invece, A religiosa portuguesa [+leggi anche:
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, firmato da un habitué di Locarno, il francese Eugène Green. Ispirato, almeno nel taglio frontale delle inquadrature, al cinema di Manoel de Oliveira, il film riprende dal cinema del maestro lusitano anche la protagonista Léonor Baldaque, nei panni di un’attrice parigina d’origine portoghese, in trasferta a Lisbona per interpretare un film tratto dalle Lettere di una monaca portoghese, romanzo epistolare del XVII secolo. L’intellettualismo dell’incipit è stemperato dall’(auto)ironia, dalla musicalità dei dialoghi, dalla malinconia struggente del fado che accompagna il peregrinare e gli incontri della protagonista.

Si ascolta tanta buona musica (il titolo non mente) anche in La cantante de tango [+leggi anche:
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dell’argentino Diego Martínez Vignatti, prodotto con capitali belgi, francesi e olandesi. Come si supera (se si supera) la fine di un grande amore? Quello tra Helena (Eugenia Ramirez, moglie del regista) e il suo uomo è finito, e lei si disperata: lo tempesta di telefonate, trascura le prove con i musicisti, beve. Riuscirà a rifarsi una vita tra i paesaggi ventosi del Nord-Pas de Calais, magari accettando la corte del medico del villaggio, Bruno Todeschini? Alternando le sequenze in Argentina a quelle francesi, Vignatti non dà risposte certe sul destino della donna, ma – sull’esempio di Rossellini – preferisce “formulare domande: solo così il cinema può diventare uno strumento di disvelamento”.

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