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FILM / RECENSIONI

Cella 211

di 

- La pluripremiata produzione di Daniel Monzon si avvale di una sceneggiatura intelligente e di ottimi attori per un film di genere di stampo sociale

Dopo la standing ovation riservata al film in occasione della sua proiezione alle Giornate degli Autori di Venezia, Cella 211 [+leggi anche:
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dello spagnolo Daniel Monzon era destinato a fare breccia nel pubblico. E infatti questo titolo è diventato uno dei più grandi successi del box-office spagnolo dell'anno scorso, e lo scorso febbraio ha ricevuto, tra gli altri, otto premi Goya (leggi la news), tra cui quelli di miglior film, miglior regista, miglior attore e migliore rivelazione maschile.

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Benché la storia di questo dramma carcerario non sia del tutto nuova, la forza del racconto, narrato e filmato in modo classico, risiede nella sua meticolosa sceneggiatura e nelle performance solide dei suoi attori principali, Luis Tosar (I lunedì al sole [+leggi anche:
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) e Alberto Ammann, volto nuovo di origine argentina e residente in Spagna. Per interpretare il criminale incallito Malamadre, Tosar ha dovuto prendere peso, a livello fisico e vocale. Ammann è invece notevole nella sua parte di secondino, che nel suo primo giorno di lavoro si ritrova coinvolto in un ammutinamento.

L'intensa azione di Cella 211 si svolge in trenta ore, durante le quali il giovane Juan si rende conto che i buoni e i cattivi non sono necessariamente quelli che si pensa. Intrappolato in carcere, fa finta di essere uno dei detenuti e utilizza tutto il suo ingegno per sopravvivere; finisce per sposare la causa dei prigionieri, i quali chiedono semplicemente di essere trattati come esseri umani.

Le trattative procedono bene fino a quando i rivoltosi non prendono in ostaggio tre detenuti membri dell'ETA. Da quel momento, il personale carcerario assiste, impotente, agli eventi, mentre i politici si confrontano sul modo di gestire il conflitto, altre rivolte di detenuti scoppiano in tutto il paese e manifestazioni vengono organizzate nei Paesi Baschi.

Il film rimanda alla vecchia idea secondo la quale quando tratti gli uomini come animali, diventano animali, ma Monzon va oltre nella riflessione sociale: condanna la gerarchia che fa sì che le classi "elevate" debbano sempre aspettare, per agire, ordini superiori, anche se questa paralisi conduce a un bagno di sangue. Il regista mostra anche che le guardie carcerarie sono senza dubbio i più feroci di tutti, e forse i primi a perdere la loro umanità nel circolo vizioso della violenza quotidiana in carcere.

Questa brutalità, tuttavia, non è mai rappresentata in modo gratuito. Al contrario, è relativamente moderata e pulita, considerato il contesto. Monzon crea tensione prima di tutto nel racconto e fra i personaggi (Il carcere sarà preso d'assalto dalla polizia? Juan sarà scoperto e ucciso?), di modo che lo spettatore finisca per capire e per preoccuparsi di questi ultimi, in particolare di Malamadre.

Tosar dà infatti al suo personaggio di capo ribelle una grande intelligenza e profondità. Il pubblico è portato a sentirsi solidale sia con lui che con Juan, nella misura in cui percepisce che i due uomini condividono lo stesso codice morale, lo stesso senso di lealtà. Anche Carlos Bardem (fratello di Javier) offre una bella performance nel ruolo del "Colombiano", un detenuto vizioso che sospetta di Juan fin dall'inizio e ce l'ha con lui per aver preso il suo posto di braccio destro di Malamadre.

Il tragico intreccio secondario, che riguarda la moglie incinta di Juan (Marta Etura) e il direttore del carcere (Antonio Resines), è forse un po' forzato, ma dà dinamismo all'insieme del racconto e alle azioni di Juan, che segneranno il suo destino.

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