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CANNES 2011 Concorso / Turchia

Once Upon a Time in Anatolia: un'imponente lezione di cinema

di 

Già premiato al Festival di Cannes nel 2008 per Tre scimmie [+leggi anche:
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intervista: Zeynep Ozbatur
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(premio della regia), il regista turco Nuri Bilge Ceylan torna in competizione e conferma con Once Upon a Time in Anatolia [+leggi anche:
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di essere uno dei più grandi stilisti del cinema contemporaneo. Ma i film di Nuri Bilge Ceylan bisogna sudarseli, ed è il caso di queste 2h37 assimilabili a un lungo ed estenuante viaggio al termine della notte, una notte bianca nelle steppe desertiche dell'Anatolia, una notte di vagabondaggio guidati dalla lanterna di un poeta tenebroso.

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"Vi annoiate a morte, ma un giorno, ciò che accade qui vi divertirà". Questa frase suona come un messaggio - l'unico, peraltro - che il regista lancia al suo pubblico di cinefili. Ci sono scoperte che richiedono tempo e i protagonisti di questa storia lo dimostrano. Di notte, in Anatolia, tre auto percorrono una strada monotona e tortuosa alla ricerca di una scena del crimine. Un commissario, un procuratore, un medico e alcuni poliziotti si aggirano per le campagne con due sospetti ammanettati che non riescono a ritrovare il luogo in cui si sono liberati di un corpo.

Un corteo di automobili con i fari che squarciano il buio, il cielo tormentato e pesante delle steppe anatoliche, i rumori da lontano - temporale, versi di animali, lamenti - e il tempo che si sbriciola. L'arte di catturare la semplicità del reale, poi di dilatarla al massimo per sentirla. Le sensazioni traspirano e perlano lo schermo come la fronte di gran parte di questi uomini - poche donne, a immagine della società turca - che Ceylon filma il più vicino possibile alla loro pelle. In questo tunnel di strade sfilacciate e crudelmente simili fra loro, i dialoghi suonano come un'eco e i monologhi sono perfettamente cesellati. La scrittura di Nuri Bilge Ceylan priva la sua opera delle chiavi che permetterebbero di schiuderla facilmente. Come fanno gli investigatori, bisogna cercarle per non perdersi.

Dopo ogni fermata, una ripartenza a mani vuote stuzzica la capacità d'osservazione dello spettatore. Poi arriva una pausa più lunga in una città e il tono cambia. Ma un ricevimento viene bruscamente interrotto da un blackout e il pubblico ripiomba nel clima così particolare, unico, della prima parte del film, prima che la lanterna di una guida rilanci l'invito al viaggio in una scena degna dei capolavori della pittura barocca. Le peregrinazioni riprendono e terminano con una scoperta, evviva, a 67 minuti dai titoli di coda. E' l'alba, e con il giorno, l'autopsia deve far luce su questo crimine. I neon non fanno che prolungare la notte. Il gruppo è arrabbiato. La fatica complica le cose. L'osservazione, la redazione dei rapporti, il lavoro della giustizia, l'assurdità dei crimini che bisogna spiegare, tutto questo richiede tempo.

Attraverso i suoi personaggi, Nuri Bilge Ceylan affronta temi inerenti alla sua società: l'ineguaglianza dei sessi, la freddezza dell'amministrazione, il peso delle tradizioni in contrasto con i costumi, la resistenza al cambiamento vissuto come una colonizzazione. L'indagine è densa e oscura. L'impazienza di noi allievi è felicemente compensata, o meglio ricompensata dall'ampiezza magistrale di una vera lezione di cinema.

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(Tradotto dal francese)

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