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CANNES 2019 Concorso

Recensione: Il paradiso probabilmente

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- CANNES 2019: Elia Suleiman è in competizione con un ritratto divertente e assurdo su cosa significhi essere un palestinese

Recensione: Il paradiso probabilmente
Elia Suleiman in Il paradiso probabilmente

Elia Suleiman è uno dei preferiti del Festival di Cannes. Il paradiso probabilmente [+leggi anche:
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è il suo quarto lungometraggio a partecipare al grande evento nel sud della Francia, e il suo terzo in concorso. Alcune cose non cambiano mai: Suleiman interpreta ancora una volta una versione silenziosa di se stesso sullo schermo (che per chiunque sappia quanto è loquace il regista, è ironico di per sé) e guarda al caos della vita che si aggira intorno a lui con divertimento. C'è un tocco di Jacques Tati nel tono e nello stile del suo lavoro, e questo nuovo sforzo, con la sua messa in scena in stile tableaux, ha un tocco di Roy Andersson.

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It Must Be Heaven è il film più divertente e accessibile di Suleiman fino ad oggi, soprattutto perché il regista porta se stesso fuori dalla sua terra natale palestinese dopo il primo atto e sposta l'azione a Parigi e New York. Non affrontando direttamente il conflitto israelo-palestinese, Suleiman è in grado di fare i conti con una domanda altrettanto pertinente: cosa significa essere un palestinese? L'erba del vicino è sempre più verde?

Il film inizia nei dintorni familiari di Nazareth. Vestito con il suo cappello tipico e il cappotto a tre quarti, Suleiman beve vino e guarda qualcuno cogliere un limone dall'albero del suo vicino. Costui sostiene che va bene così perché di solito chiede il permesso e questo gli viene concesso: "Non sto rubando". Eppure ogni giorno l’uomo invade un po' di più, abbattendo gli alberi e coltivando la terra – tanto da farci chiedere se in realtà non sia il proprietario. La scena è divertente in sé, ma fa pensare anche agli insediamenti in un film pieno di doppi significati. Il regista è consapevole di essere stato già su questo territorio prima, quindi è una mossa intelligente da parte sua quella di affrontare direttamente questa minaccia, e fare quello che hanno fatto molti palestinesi: lasciare il paese. Come regista, ha il privilegio di poter andare e venire, e non dover andare in esilio.

Quando arriva a Parigi, si siede in un bar e osserva la belle vie. Passano graziose modelle, e sembra una versione da cartolina della città, realizzata da una casa di moda. Ma le cose cambiano mano a mano che Suleiman trascorre più tempo nella capitale francese. Le strade sono stranamente vuote al mattino, e quello che vede sono neri che puliscono dappertutto, la burocrazia della polizia e una presenza militare. Quando si incontra con un finanziatore francese per il suo film, gli viene detto: "Non è abbastanza palestinese".

Quindi se ne va a New York, dove non riesce nemmeno a entrare in una casa di produzione cinematografica per presentare il suo progetto. Ovunque guardi, vede gli americani trasportare armi; è una situazione tanto negativa quanto quella che ha lasciato in Palestina. Suleiman prende di mira Trump e l'imperialismo americano semplicemente ritraendo fucili estratti dalle macchine e appesi alle spalle.

Le assurdità e le gag visive contenute in It Must Be Heaven sono alcuni degli sketch più divertenti che Suleiman abbia mai messo sullo schermo, rendendo questo film il suo film più gradevole e divertente fino ad oggi.

Il paradiso probabilmente è prodotto dalla francese Rectangle Productions e Nazira Films, la tedesca Pallas Film, la canadese Possibles Media e la turca ZeynoFilm, in associazione con il Doha Film Institute, Wild Bunch, Le Pacte, Schortcut Films, Maison 4:3, l’Arab Fund for Arts and Culture e KNM. Le vendite internazionali sono gestite da Wild Bunch.

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(Tradotto dall'inglese)

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