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TORONTO 2019 TIFF Docs

Recensione: Ibrahim: A Fate to Define

di 

- Il primo film documentario di Lina Al Abed racconta il destino misterioso di suo padre mescolando indagine e privato

Recensione: Ibrahim: A Fate to Define

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è il primo lungometraggio della regista palestinese, nata a Damasco, Lina Al Abed. Il film narra la complessa vicenda del padre, unendo il genere del documentario (auto)biografico ai toni dell’investigazione e spaziando attraverso i decenni e i continenti, tra un intrigo politico su scala globale e questioni familiari profondamente personali. Il film è stato proiettato in anteprima mondiale al CPH:DOX e in Nord America a Toronto, nella sezione TIFF Docs.

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Al Abed apre il suo film con una carrellata di immagini di archivio, risalenti a sei anni prima della sua nascita: siamo nel 1974 e Yasser Arafat parla all’ONU. Seguono immagini di telegiornali che documentano le esemplari esecuzioni ad opera dell’Organizzazione di Abu Nidal (nota anche come Consiglio Rivoluzionario), una fazione dell’OLP che osteggiava i negoziati di pace tra Israele e la fazione dominante, considerata traditrice.

Successivamente, vengono presentati Lina Al abed e suo padre Ibrahim attraverso la voce fuori campo della regista stessa. Membro di spicco dell’Organizzazione di Abu Nidal, Ibrahim lascia Damasco nel 1987 per non essere mai più rivisto. Alla ricerca, quindi, di notizie riguardanti il padre – ma soprattutto della propria identità – Al Abed inizierà un’indagine che la porterà a Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Beirut, Amman, Berlino, fino a giungere alla città natale di suo padre: Deir Abu Meshaal, presso Rammalah.

Pur trattandosi di un’indagine personale della regista, la vicenda presenta inevitabilmente elementi investigativi, i quali compaiono nel film soprattutto all’inizio e nel finale. Secondo quanto afferma Patrick Seale nel suo libro Abu Nidal: A Gun for Hire, Ibrahim stava lavorando per un’importante azienda di Zurigo quando fu accusato dall’organizzazione di essere una spia del Mossad e della CIA, e per questo venne giustiziato nel 1987. Tuttavia, nel 1988 – quando Al Abed aveva 18 anni – un ex vicino di casa di Damasco raccontò alla famiglia della donna che il padre era tornato e aveva chiesto di loro, per poi andarsene di nuovo in tutta fretta.

Buona parte di questo lungometraggio è costituita dalle conversazioni tra Al Abed e i suoi parenti: dalla madre Najat – di origine egiziana – che vive ancora a Damasco ed è convinta che un uomo che abbandona la famiglia non meriti di essere protagonista di un film, alla sorella maggiore Najwa, la quale racconta come la scomparsa del padre abbia influenzato il suo rapporto con gli uomini.

Dopo aver incontrato alcuni familiari attraverso il Medio Oriente, Al Abed approda a Berlino, dove il fratello lavora come barista e Khalil, altro suo parente, gestisce una pizzeria; attraverso le loro testimonianze, la donna riuscirà a ottenere indizi più precisi riguardanti la sorte di Ibrahim.

Nel tentativo di ricostruire quanto accaduto al padre, la regista naturalmente interroga e scopre anche se stessa. La sua voce fuori campo – neutra, ben modulata e mai ridondante – si rivolge ora al pubblico, ora a se stessa e al padre. Il film è stato girato, scritto e diretto in collaborazione con il produttore Rami El Nihawi, il quale riesce a dare alla vicenda un ritmo coinvolgente, seppur ben bilanciato; inoltre, El Nihawi ricorre talvolta a tecniche altamente creative, come ad esempio le inquadrature sfuocate di un uomo dietro a una finestra a Damasco – chiaro riferimento all’ambiguità della tematica trattata nel film. L’aspetto politico della vicenda rimane nebuloso dall’inizio alla fine, mentre la questione personale della vicenda troverà una risoluzione nella quale il pubblico può riuscire a identificarsi.

Ibrahim: A Fate to Define è una coproduzione della libanese Sak A Do, la palestinese Idiom Films, la danese Tonemestrene, la slovena Iridium Film e il Doha Film Institute. I diritti internazionali sono detenuti da Idiom.

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(Tradotto dall'inglese da Gaia De Antoni)

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