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SUNDANCE 2023 Premieres

Recensione: Drift

di 

- Nel dramma minimalista di Anthony Chen, Cynthia Erivo offre un'interpretazione potente nei panni di una migrante liberiana approdata su un'isola greca paradisiaca

Recensione: Drift
Cynthia Erivo in Drift

Nonostante la reazione poco entusiastica con cui a volte vengono accolti i film sulle cause sociali contemporanee, non si può ignorare l’impatto e il cambiamento reale che questi possono portare, soprattutto quando hanno la fortuna di arrivare al momento giusto. Ad esempio, il riconoscimento di A Short Film about Killing di Kieślowski stimolò cambiamenti politici nazionali sulla pena capitale, e anche se il ruolo di Rosetta nel consolidare le leggi sul lavoro giovanile si è rivelato essere poco più di una credenza popolare, il film rimane un tipico esempio del modo in cui i Dardenne cercano di incoraggiare i loro spettatori ad abbandonare l'apatia e reagire visceralmente alle ingiustizie che descrivono. 

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C’è un richiamo simile alla responsabilità sociale in Drift, terzo lungometraggio del regista singaporiano Anthony Chen, una produzione internazionale – presentata in anteprima al Sundance – molto attesa e di più ampio respiro rispetto ai due fortunati lavori precedenti del regista, svelati a Cannes (Ilo Ilo, anche vincitore della Camera d'Or) e a Toronto. Resistendo alla tendenza a convertire l'ondata di profughi dalle zone di conflitto in statistiche astratte, e a sensazionalizzare il fenomeno passandolo al setaccio della copertura mediatica, Chen concentra lo sguardo su una figura specifica, Jacqueline (Cynthia Erivo), una liberiana in cerca di aiuto su un'isola greca senza nome, ottenendo dall'acclamata attrice (Erivo ha una nomination all'Oscar al suo attivo) un’interpretazione che attraversa una vasta gamma di caotiche emozioni umane – inclusa, nonostante la difficile situazione del suo personaggio, una certa allegria. Immergendosi profondamente nella sua vita interiore fratturata, Chen ci invita a provare empatia per lei o semplicemente a prenderci cura di lei, mentre i paesi privilegiati continuano a istituire tetti all'accoglienza dei migranti e crudeli politiche di deportazione.

Ciò che inoltre distingue il personaggio di Erivo dalle altre figure centrali delle più recenti narrazioni sui rifugiati è lo status quasi elitario che aveva nella sua vita passata. Chen ci porta a proiettare su di lei le consuete aspettative di pura indigenza e inesperienza, mentre invece le vite reali raramente corrispondono alle solite generalizzazioni. Jacqueline era la figlia di un ministro di alto rango nella Liberia di Charles Taylor, prima che la seconda guerra civile del paese dall'indipendenza culminasse nel violento rovesciamento del suo governo (che a sua volta era stato istituito su un sanguinoso colpo di stato). Essendo inizialmente il suo viaggio nel Mediterraneo europeo e il destino che attenderà la sua famiglia un'ellissi sconosciuta, vediamo Jacqueline che vive come un'emarginata tra ricchi vacanzieri bianchi offrendo massaggi sulla spiaggia per poi ritrovarla, con un certo senso di colpa, in una piccola stanza improvvisata che ha allestito in un palazzone di cemento abbandonato.

Dopo essere sfuggita con successo alla polizia locale fingendosi una giornalista inglese per fugare i loro sospetti sulle circostanze in cui vive, trascorre il giorno successivo girovagando per una tranquilla zona collinare dell'isola. Lì incontra Callie (Alia Shawkat, che offre una delle sue migliori interpretazioni non comiche fino ad ora), una guida turistica americana (e un'altra espatriata nel Mediterraneo, ma per motivi completamente diversi e più volontari). Per quanto sconcertante possa essere (qui sta il trucco della narrazione), Jacqueline è riluttante a chiedere aiuto alle autorità, che probabilmente sarebbero profondamente solidali con la sua situazione. Invece, usa gradualmente la sua nuova amica per rivelare l'esatta natura e la portata del suo trauma, fornendo un contesto al disagio magistralmente espresso dalla complessa performance gestuale di Erivo.

Affidandosi a flashback per mostrare il deterioramento della sua vita in Liberia, i pezzi di Drift iniziano a mettersi al loro posto, rivelandosi come un artefatto drammatico palesemente manipolativo, eliminando ogni ambiguità a favore di una chiarezza catartica. Si ha la sensazione che Chen e il suo team abbiano eseguito il progetto esattamente come lo avevano immaginato, ma l'orizzonte e l'impatto finale di questo film di soli 90 minuti sembra limitato all'arco narrativo che copre il viaggio personale di Jacqueline, prefigurato dalle impronte nella sabbia della sequenza iniziale, gradualmente spazzate via dalla marea.

Drift è una coproduzione tra Francia, Regno Unito e Grecia, guidata da Paradise City, Cor Cordium, Edith’s Daughter e Giraffe Pictures. Le vendite mondiali sono curate da Memento International.

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(Tradotto dall'inglese)

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