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“Exception culturelle” e propaganda del territorio

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- La prosperità dell'industria cinematografica non deriva semplicemente dal libero mercato ma anche dalle influenze della storia e della politica. La nascita delle Film Commission si inserisce nel sistema come attore dal ruolo determinante per la facilitazione dei rapporti fra l'industria e il territorio.

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Fra i tanti bersagli che un certo diffuso qualunquismo sceglie per esercitare le sue retoriche più vuote, quello del sostegno dello Stato al cinema nazionale non è forse quello centrale, ma quasi certamente il tema è fra quelli di cui capita di sentir parlare a sproposito. Del resto, di cinema chiunque si sente titolato a parlare: ma se ciò costituisce la forza e il bello di un’arte che, in genere, è facilmente fruibile anche con un livello di formazione culturale minimo (lo diceva Truffaut che ciascuno ha due mestieri: il proprio e quello di critico cinematografico), diventa invece una trappola quando si pretende di sindacare su questioni pratiche, economiche e anche culturali, senza prima darsi la pena di raccogliere qualche informazione. Basta aprire un buon libro di storia del cinema per scoprire come e quanto, dopo i primi anni pionieristici, le basi della prosperità di qualsiasi industria cinematografica non siano state, semplicemente, il libero mercato - ma abbiano invece subito in modo determinante le influenze della storia e della politica. Il dominio statunitense affonda le sue radici nelle devastazioni prodotte in Europa da ben due guerre mondiali, e si consolida anche grazie a una serie di scelte molto precise imposte, a beneficio dell’industria interna, dal governo americano. E praticamente non esiste una rinascita, un rifiorire, un rinnovo, nelle cinematografie europee, che non siano state determinate da scelte illuminate di questo o quel governo, e che non siano appassite rapidamente con il mutare delle condizioni politiche. Business impegnativo prima che arte, il cinema non può prescindere dal sostegno statale sulla base di quella che i francesi, con felice espressione esportata un po’ dappertutto, hanno battezzato “exception culturelle” - un’eccezione da intendersi alle regole, dilaganti, del mercato, e che punta a proteggere la cultura da regole puramente economiche, nella convinzione che si tratti di un bene non sempre monetizzabile, e sicuramente più prezioso delle risorse che impegna. Nelle storie del cinema si parla meno, tuttavia, di uno strumento la cui introduzione nel nostro paese è relativamente recente e ancora in pieno sviluppo: si tratta del fenomeno delle Film Commission, agenzie locali deputate alla facilitazione dei rapporti fra l’industria cinematografica (da intendersi in senso internazionale, a includere quindi anche le produzioni non italiane) e il territorio su cui quella determinata Commission è competente. Perché si parla di facilitazione? Perché la realizzazione di un film è un’impresa che ha, con il territorio scelto come set, un’interazione spesso molto intensa, che richiede la massima buona volontà da entrambe le parti: nel bene e nel male, una troupe cinematografica è sempre un’entità ingombrante, capace di pretendere un accesso esclusivo o comunque agevolato ad aree pubbliche, generatrice di traffico e di blocchi della circolazione, sempre voracissima di parcheggi, talvolta bisognosa almeno di un minimo di protezione da parte delle forze dell’ordine. D’altra parte costituisce anche un gruppo più o meno numeroso che ha bisogno innanzitutto di ristoranti e alberghi, e poi di una varietà sorprendente e spesso del tutto imprevedibile di competenze e servizi locali. Fra permessi da richiedere agli enti locali, e servizi da acquistare sul posto, le riprese di un film costituiscono senza dubbio un moltiplicatore finanziario la cui importanza è proporzionale non solo all’entità della produzione ma anche, com’è ovvio, all’importanza del comune ospitante. Ma il saldo finale deve essersi dimostrato positivo, se è vero che negli ultimi anni le Film Commission in Italia si sono moltiplicate, tentando in ogni modo di sottrarre a Roma almeno una parte di un mercato che, dopo il primo decennio del cinema muto, si è concentrato sulla capitale - per motivi che in parte vanno riportati ai più favorevoli fattori climatici, ma che si dovettero soprattutto a una ben precisa volontà politica, cristallizzatasi poi in consuetudine fino agli anni della grande crisi.

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La tendenza si è da tempo invertita, e la esperienza straordinaria della Film Commission di Torino, attivata nell’anno 2000 (e divenuta un modello che vanta innumerevoli tentativi di imitazione), ha rivelato ai cineasti italiani e stranieri la possibilità di trovare lontano da Roma location suggestive e una collaborazione ben maggiore degli enti locali. L’esperienza insegna che gli investimenti in questa direzione sono ben lungi dall’essere a fondo perduto: lo scorso 2 febbraio, al convegno milanese “Il cinema italiano oggi - Il sentimento della realtà”, il consigliere regionale Piero Colussi ha portato i dati dell’intervento a favore del cinema del Friuli Venezia Giulia, rivelando che a fronte di una spesa per il Film Fund di appena 600 mila euro, la regione ha goduto dell’immissione nell’economia locale di ben 7,5 milioni di euro, “con 10 milioni di euro di ricadute”. E tuttavia, come si diceva all’inizio, l’interesse economico non deve essere il fine centrale di questo genere di iniziative.

Il cinema (e utilizziamo qui il termine in senso ampio, a includere anche le serie e le miniserie televisive) è ancora oggi un formidabile veicolo di documentazione del territorio: una piccola rassegna dei film realizzati in questa o quella città nel corso di oltre centodieci anni di storia del cinema costituirebbe una singolare ed efficacissima macchina del tempo per ricostruire il modo in cui il nostro paese si è trasformato nel corso degli anni - spesso a prescindere dal valore artistico dei singoli titoli. Per non dire dell’importanza che il mezzo ha in termini di propaganda del territorio, con effetti positivi non solo a livello turistico ma anche, più ampiamente, in senso culturale. Il fatto che le serie più seguite della televisione nazionale si svolgano non tutte a Roma (ma a Parma, a Torino o a Trieste) non è solo una questione di geografica par condicio ma una diversificazione culturale preziosa, che almeno in parte inverte la tendenza pluridecennale al livellamento della rappresentazione dell’intero paese su un repertorio di ambienti che costiuisce una frazione di quanto l’Italia ha da offrire.

Non tutti apprezzano ancora questo tipo di propaganda: nel Ragusano è capitato a chi scrive di ascoltare qualcuno stigmatizzare l’enorme aumento di attenzione della zona dovuto al successo televisivo del commissario Montalbano - quasi che i turisti che vengono nel quartiere di Ibla a cercarvi la Vigata di Camilleri non fossero degni di un luogo del genere. Ma la tendenza, per fortuna, sembra tenacemente avviata nel senso opposto dell’apertura: così la Basilicata accoglie con gioia quelli che vengono a cercarvi la Palestina di Mel Gibson e Ragusa, tutto sommato, sembra saper apprezzare anche chi la chiama, inizialmente, con un nome inventato. E che non ci mette poi tanto, superata la mediazione del fantastico, a scoprire la bellezza della realtà.

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